Da poco disponibile per i tipi di Les Flâneurs, Isolane. Luciuzza e altri racconti di Maria Messina è una raccolta di novelle che potrà contribuire parecchio alla riscoperta di un’autrice che, poco celebre in vita, fu però molto apprezzata dalle voci autorevoli e dai maggiori intellettuali del suo tempo (con alcuni dei quali intrattenne anche una fervida corrispondenza, si veda il carteggio con Verga, la cui pubblicazione negli anni Settanta le ha restituito una meritata visibilità), e il cui nome iniziò a riscuotere maggior credito solo a partire dagli anni Ottanta, quando Leonardo Sciascia lo accostò a quelli di Verga e Pirandello, giungendo a definirla “una Mansfield siciliana”, ed Elvira Sellerio ne promosse la pubblicazione delle opere.
Le novelle qui raccolte, nove di numero e appartenenti ad anni diversi della sua produzione, presentano tutti i temi peculiari della sua opera: riservano infatti una grande attenzione alla crisi del sistema patriarcale nell’Italia a cavallo tra Otto e Novecento, a quella dei ruoli e delle dinamiche tradizionali interne alla famiglia, come pure al rapporto cruciale tra padre e figlia, alla presa di coscienza da parte delle figure femminili della propria condizione di asservimento, nonché ad altri motivi rivalutati recentemente dalla critica, come quelli della fuga impossibile e della reclusione, che vanno ad aggiungersi alla più ampia indagine sull’emigrazione, sul confronto con un mondo “altro”, a volte solo immaginario. Le vicende e le figure che in esse si muovono consentono inoltre di capire con estrema chiarezza che la cifra più preziosa della scrittura messiniana non coincide esclusivamente col più volte richiamato verismo regionalista (Borgese, pur apprezzandola, la definì con un certo paternalismo “scolara” di Verga, Una scolara di Verga è il titolo di un saggio da lui dedicato a Piccoli gorghi, raccolta di novelle del 1911) o “attardato verismo”, se non “verismo imperfetto” per alcuni, ma col voler “conferire centralità al soggetto femminile, conducendo a una prospettiva critica dei dispositivi di genere”, come viene sottolineato giustamente da Ivana Margarese nella Prefazione al volume, e nella riflessione riservata al “passaggio intimo della coscienza, che da inconsapevole giunge a un momento numinoso, in cui sembra possibile distillare l’oscurità per restituire la luce, flebile ma esistente”, passaggio attuato attraverso un percorso doloroso e quasi mai coronato da successo, il cui esito coincide spesso con la solitudine, subìta, imposta in molti casi da una comunità ostile, ma a volte anche accettata, ambita qualora possa rivelarsi come l’unica possibilità di emancipazione da un contesto sociale e familiare oppressivo.
Le protagoniste di queste pagine sono quasi tutte donne che, in obbedienza a leggi ataviche le cui origini si perdono nella notte dei tempi tanto da essere assurte a leggi “naturali”, benché di naturale abbiano poco, essendo invece la risultanza di una mentalità feroce e cieca che fa del sopruso, della sottomissione e della disuguaglianza i suoi tratti distintivi, sono costrette dalla più tenera età a “guadagnarsi il pane”, perdendo così il diritto all’istruzione e la speranza in un futuro migliore (Mandorle), magari per andare a far le serve in case altrui (Compagne di scuola), vista l’indigenza della famiglia d’origine, oppure obbligate ad accettare una vita da recluse, in disprezzo dei sogni e delle aspirazioni personali (Rose rosse), vittime di una realtà a cui pure però altre donne prestano il fianco (Rose rosse, La bimba). Si tratta per lo più di bambine di umili origini, tra cui spicca Luciuzza, la cui innocenza e purezza spirituali non possono trovare comprensione in un contesto in cui vigono l’ignoranza e la sopraffazione.
Custodi dei valori morali introiettati, a cui difficilmente si sottraggono (Di notte) visto il loro buon cuore (La bimba, la vecchia e la Madonnina nera sotto l’arco di rose), e fondamentalmente sole – aspetto questo non trascurabile se si vogliono comprendere appieno le dinamiche in cui restano impigliate fino alla fine – queste figure femminili sono tutte accomunate dalla consapevolezza della propria condizione, tutte a un passo dal rompere il meccanismo, l’automatismo che le incatena, le reclude (significativa la pagina in cui Caterina, in Il telaio di Caterina, riesce a “vedersi”, scegliendo quindi di collocarsi fuori dalle regole, dalle consuetudini a cui molte si adeguano: “Si vide le braccia lunghe nelle maniche troppo corte; le parve di avere un petto enorme, un corpo enorme. Provò una specie di vergogna. […] Perché era venuta a rappresentare una parte nella commedia? Sentì un acuto disgusto di sé e di coloro che la circondavano.”), anche se questo passo ulteriore, che pur potrebbe mutare il loro status di donna sottomessa, non viene mai compiuto (Rose rosse).
Questa apparente rassegnazione, che impedisce di fatto alle protagoniste di giungere a una vera emancipazione, che sembra invece restare un desiderio disatteso, un traguardo irraggiungibile, un orizzonte destinato a rimanere sullo sfondo, non intacca però minimamente la grande forza espressiva, la carica eversiva delle storie stesse, che nelle mani della Messina conservano intatto, fino in fondo, il loro valore assertivo, di denuncia, senza mai perdere di vista ciò che c’è di buono nel cuore umano. Come ebbe a dire la scrittrice in Congedo, romanzo del 1920: “Pure nella loro sorte c’è sempre un bel raggio di sole: perché ciascuna di queste ragazze crede a ‘qualche cosa’ e vuole aiutare qualcuno. E chi crede all’utilità del suo lavoro o alle parole di chi l’ama, chi rimpiange la felicità perduta per sua colpa o chi ricorda una cara creatura sparita – ciascuna esce talora dal cerchio della vita, per entrare, sola e non vista, nel piccolo mondo spirituale che custodisce, intatte, le forze più fresche, le aspirazioni più nobili della sua femminilità”.