Innanzitutto, Lei è il direttore di Mangialibri, un grande magazine generalista, come lei lo ha definito, dedicato al mondo dell’editoria che propone costantemente recensioni, interviste agli autori e servizi editoriali, e che può vantare circa 5000 visitatori al giorno.
Lei che è un lettore forte che idea ha del racconto, lo considera una forma letteraria di valore o come un qualcosa di subalterno rispetto al romanzo?
D. La circostanza che esista qualcuno che ritiene il racconto una forma narrativa subalterna è per me da ascriversi ai misteri della vita. Come il fatto che esista qualcuno che ritiene gli uomini con un certo colore di pelle superiori a quelli che ne hanno un altro, o che esista chi è superstizioso, o chi crede alle scie chimiche. Assisto attonito allo spettacolo di cotanta irragionevolezza.
Cos’è che la affascina nelle pagine di uno scrittore di racconti? Cos’è che le fa dire: sì, questo autore è davvero in gamba, questi racconti valgono?
D. La mia formazione letteraria popolare nasce proprio dalla forma racconto. L’imprinting ricevuto dagli incubi su carta di Edgar Allan Poe, dalle piccole gemme di Richard Matheson e Philip K. Dick, dall’amarezza visionaria di Dino Buzzati e ovviamente Franz Kafka, dal meccanismo implacabile ma sublime dei “finali a sorpresa” dei fumetti della EC Comics mi porta ad apprezzare istintivamente la creatività pura, la capacità di un autore di concentrare in poche pagine la maggior quantità di idee possibile. Con la maturità ho imparato ad apprezzare l’approccio opposto, la minimalità struggente di Carver o del misconosciuto Peter Stamm, di certa letteratura giapponese.
Secondo Lei, la forma del racconto ci può aiutare a capire il presente, la nostra società? Perché?
D. Per cercare – spesso invano, temo – di capire il presente e il passato tendo a concentrarmi più sulla sostanza. Non è in un ritmo di lettura, in una forma stilistica, in un numero di pagine che si nasconde il bandolo della matassa. Almeno per me.
Ci sono scrittori di racconti contemporanei e non (anche in Italia) che vuole menzionare per il loro valore e che ritiene un esempio di stile per le nuove generazioni?
D. Voglio menzionare tre italiani colpevolmente poco conosciuti: Maurizio Cometto, Daniele Titta, Peppe Fiore. Giovani maestri italiani della forma racconto.
Ma è proprio vero che in Italia i libri di racconti in genere non si leggono? (Se sì, da cosa dipende, secondo Lei, questo fenomeno? Nota delle differenze tra il nostro Paese e altri che Lei conosce?)
D. Mah. A me pare più che siano guardati con sussiego dal “solito giro” autoreferenziale che domina la comunicazione letteraria sui media (e in parte ahinoi decide l’accesso alla pubblicazione per i marchi che contano). In certo ambiente editoriale italiano spesso la percezione, l’autopercezione e il racconto della realtà sono esercizi inquinati da pregiudizi che non hanno riscontro “al botteghino”.
Da grande lettore appassionato di libri, cosa si sente di dire ai giovani autori di Emergenza Scrittura che amano scrivere? Quali indicazioni darebbe a un giovane autore di racconti?
D. Dovete stupire il lettore, travolgerlo con la forza delle idee, sparargli una raffica di emozioni in pieno petto. In ogni piccolo racconto debbono esserci gli stessi spunti che sviluppereste in un romanzo di 500 pagine. Un racconto è un distillato, non un assaggio.
Intervista a cura di Gianluca Massimini per Emergenza Scrittura