Gentile Francesca, i suoi contributi appaiono regolarmente su riviste e blog di letteratura, è redattrice di Nazione Indiana e ha appena dato alle stampe il romanzo More Uxorio, il suo esordio letterario.
La domanda con la quale apriamo tutte le interviste della nostra indagine sul racconto è questa: Lei considera il racconto come una forma di valore o come un qualcosa di subalterno rispetto alla forma romanzo?
Sono portata a considerare il valore della scrittura in sé, più che della “forma” che assume. Per cui che sia romanzo, racconto, poesia, teatro, saggio, ecc., ai fini del giudizio non m’influenza affatto. E anzi, trovo molto più piacevole e stimolante scoprire la bellezza della scrittura nelle forme, potremmo dire, meno canonizzate.
Secondo Lei, il racconto può aiutare a capire il presente?
Anche qui, il racconto può essere illuminante (o fuorviante) esattamente come può esserlo un romanzo, o qualsiasi altra tipologia di scrittura. Siamo tutti lapalissianamente immersi nel presente, quindi, sia che decidiamo di sviscerarne minuziosamente i vari aspetti, sia che scegliamo di occuparci di realtà parallele e mondi distopici, i nostri testi saranno inevitabilmente specchio della società e del tempo in cui ci troviamo a vivere.
Cos’è che la affascina nelle pagine di uno scrittore di racconti? Cos’è che le fa dire: sì, questo autore è davvero in gamba, questi racconti valgono?
Mi affascinano molte cose, quando leggo un testo, difficile prediligerne una. Mi affascina lo sguardo dell’autore, l’acume del linguaggio, la profondità dell’introspezione, ma anche la leggerezza del gesto, la semplicità dell’ironia tanto quanto la costruzione di un’architettura raffinata della trama. Mi affascina, ancora di più, quando una trama è (o sembra) completamente assente!
Cosa può dire il racconto sulla recente storia d’Italia e sulla società italiana?
Sicuramente, data la brevitas e la concinnitas, il racconto mi pare che abbia in nuce delle affinità notevoli con la nostra società. Parlo soprattutto dei metodi e dei tempi di fruizione a cui oggi siamo più abituati. La velocità con la quale rispondiamo alle mail, scorriamo le pagine dei quotidiani on line, navighiamo tra i vari social network, è come se aprissimo continuamente tante finestre sul mondo, tanti piccoli scorci di realtà. Ecco, forse un racconto, tutto sommato, fa un po’ questo. Anche un romanzo lo fa, ma sicuramente richiede maggiore concentrazione, o meglio: una curva dell’attenzione più ampia, più durevole, meno soggetta a distrazioni. E questo, forse troppo spesso, sta diventando un lusso che non sempre e non tutti possono o piuttosto vogliono permettersi. Per quanto mi riguarda, io adoro la lentezza, e di spazi me ne concedo ancora tanti!
Quali sono gli scrittori del nostro passato recente che Lei considera dei punti di riferimento per le nuove generazioni?
Ho risposto molte volte a domande simili, e ancora non mi abituo all’imbarazzo della scelta. Non so, se parliamo di autori italiani che non ci sono più, direi sicuramente Gadda, Malerba, Manganelli, Volponi, ma anche Sanguineti e Pagliarani, quando ho letto per la prima volta “La ragazza Carla” ho capito che esisteva un universo intero da indagare. E forse ho anche capito che avrei voluto, un giorno, scrivere qualcosa di mio.
Ci sono scrittori di racconti attuali che vuole menzionare per il loro valore?
Amo molto i racconti di Cortazar, di Bolaño, di Roberto Arlt, di Alice Munro, che fra questi è l’unica in vita, ma penso che testi come “Chiamate telefoniche” o “Storie di cronopios e di famas” possano considerarsi sempre attuali, senza tempo. Un altro autore che stimo molto, lo ripeto sempre, è Michele Mari. Il suo “Tu, sanguinosa infanzia” è secondo me uno degli esempi più riusciti di libri di racconti, in Italia. Anche “Città distrutte” di Davide Orecchio, più recente, mi ha molto colpito.
Cosa ci dice sul fatto che i racconti non si leggono e non si vendono? Lei condivide questa affermazione?
Mah, non saprei dire se è proprio un problema dei racconti, o piuttosto dell’andamento medio dell’editoria italiana. Si pubblicano così tanti libri, che neppure il lettore più assiduo riuscirebbe a star dietro se non a una fettina davvero minima di quello che può offrire oggi il mercato. Per esempio, mi pare che operazioni come quella di Francesco Piccolo rendano e vendano moltissimo! Forse si scrivono meno racconti che romanzi, o forse i racconti trovano più facilmente spazio sul web, e gli autori non si avventurano in cerca dell’editore, ma scelgono più spesso di restare “nella rete”.
Come autrice e redattrice, cosa si sente di dire ai giovani autori di Emergenza Scrittura che amano scrivere? Quali indicazioni darebbe a un giovane autore di racconti?
Mi capita quasi ogni giorno di confrontarmi con giovani (e meno giovani) aspiranti scrittori, e in realtà dico sempre la stessa cosa. Posto che non mi sento affatto un’autorità in materia, e non mi metterei mai con la penna rossa in mano a dire “tu sì, tu no” (anche se, professionalmente, mi tocca!) quello su cui punterei è: la riconoscibilità. Non basta saper scrivere bene, in italiano corretto, o – come si diceva un tempo – in bella grafia, per essere dei bravi scrittori. Bisogna avere un tocco particolare, uno stile personalissimo e una visione propria delle cose, del mondo in generale e della letteratura in particolare. Altrimenti si finisce per diventare tanti medi replicanti.
Intervista a cura di Gianluca Massimini per Emergenza Scrittura