Lei ha esordito con il romanzo inedito Ora d’aria, segnalato dal Premio Calvino nel 1997. Successivamente ha scritto molto, vincendo anche il Premio Viadana e il Premio Fiesole Narrativa Under 40 nel 2002 per Una lunga notte, il Premio Brancati nel 2007 per L’amore, quello vero e il Premio Boccaccio per Lisario o il piacere infinito delle donne, con cui è stata finalista al Premio Strega 2014. Ha pubblicato anche numerosissimi racconti su rivista e in antologie. Alla scrittura narrativa e teatrale ha inoltre da sempre affiancato la produzione saggistica e manualistica, portando avanti l’iniziativa Lalineascritta, di cui è direttrice dal 1993 e con cui realizza corsi, stage e laboratori di scrittura creativa rivolti anche a giovani studenti e scuole.
La domanda con la quale apriamo tutte le interviste della nostra indagine sul racconto è questa: Lei considera il racconto come una forma di valore o come un qualcosa di subalterno rispetto alla forma romanzo?
A. Il racconto e il romanzo sono due forme diverse ed è veramente sciocco, indice di poca conoscenza della storia delle letterature, cercare la supremazia dell’uno o dell’altro: l’Italia è da sempre un paese dove il racconto ha la supremazia nella forma dell’exemplum medievale da cui nasce la novella (Boccaccio, Masuccio Salernitano, i novellieri toscani) che conserva il nome, pur cambiando aspetto e intenzioni, fino a Verga e Pirandello. Dopo di che tutto il Novecento italiano è cosparso di magistrali narratori brevi, da Arpino a Manganelli a Calvino e straordinari sono anche i racconti di grandissime romanziere come Elsa Morante. Per ragioni storiche, un tardo sviluppo della lingua nazionale a favore delle lingue regionali e l’unità politica recente, da noi il romanzo si è sviluppato solo di recente, a differenza di Spagna, Inghilterra, Francia e Russia, della stessa Germania. Questo sotto il profilo storico: l’Italia è paese di novellieri e novellatori. Poi ci sono aspetti che riguardano il metodo della scrittura: la spiegazione migliore la dà Julio Cortàzar, che del genere è maestro assoluto, e la ribadiscono Flannery ‘O Connor, Bernard Malamud, Alice Munro. Dice Cortàzar che il racconto vince per knock-out, butta giù il lettore con un sol colpo e somiglia allo scatto fotografico pre-immaginato e zen dei grandi fotografi, da Cartier Bresson a Brassai, mentre il romanzo vince ai punti, accumula mosse giuste. Il racconto taglia una fetta di vita di alcuni personaggi, infatti in francese è detto anche tranche de vie, mentre il romanzo ha il tempo di seguire dalla culla alla tomba una collettività, in certi casi. Dunque, forme che chiedono attenzione, respiro, concentrazione e obiettivi del tutto differenti, anche se le basi tecniche sono le stesse (la storia in tre atti, l’uso del punto di vista, scene e sommari, ecc…) ma, di fatto, lo scopo è divergente. Cortàzar dice che un racconto veramente buono deve possedere un nucleo atomico, un fulcro che faccia da calamita per tutti gli altri argomenti, per ogni altro oggetto o tema. Il romanzo ha la stessa necessità, anche compositiva. Spesso, quando si scrive, esperienze, libri, incontri, tutta la vita ordinaria viene calamitata dall’oggetto a cui stai lavorando. Per il racconto questo dura settimane o mesi, per il romanzo anni. Quando si dice il respiro delle storie si indica che il romanziere si sottopone a un tour de force ininterrotto, fisico per tutti gli anni che si dedica a un’unica storia, ma questo non vuol dire che un grande racconto non sia un romanzo concentrato, come diceva Cechov.
Da cosa è stata spinta nella sua scelta? Perché ha scelto in alcuni casi la forma del racconto? Le va di raccontarci la sua scelta per la forma breve del narrare?
A. Ci sono idee, immagini, esperienze che sai da subito dureranno lo spazio di un racconto ed altre che richiedono a gran voce la mole del romanzo. Ho scritto tanti racconti e continuo a farlo, a volte lunghi a volte brevissimi, e, insieme, tanti romanzi. “L’amore, quello vero”, per esempio, raccoglieva oltre dieci anni di racconti. E ho nel cassetto un altro libro, “Scisciano Paradise” che raccoglie altri dieci anni di storie, diciamo così, brevi, dove si va dalle sei cartelle alle cinquanta. E’ la materia che chiede la brevità, l’efficacia del lampo: bozzetto, scena di costume, tranche de vie, racconto interiore, breve atto comico sono alcune delle possibilità che di solito valuto di fronte a una frase, un gesto, la fotografia scattata con gli occhi lungo una strada, il comportamento delle persone. Il mistero del cuore umano, come diceva ‘O Connor. So, per esempio, che la terribile lavannara che picchia il marito in “Itagliani!” ha un breve tempo per subire la fantasiosa vendetta del marito e che l’effetto si perderebbe se le dedicassi cento pagine. Lo squarcio che si apre nell’osservazione della realtà dei personaggi è rapido e, come dice Rosa Montero, bisogna essere pronti ad arpionare balene…
Da dove trae spunto per i suoi racconti?
A. Mi attraggono le vite brevi o dimenticate, le opportunità sfuggite al vaglio, le angolazioni cui nessuno bada: Napoli è una città piena di angoli oscuri che sprigionano luce. Se sto nell’attenzione, se respiro camminando invece di correre a capofitto verso qualche dovere inutile, la dose giornaliera di storie che la città fornisce è elevata, si rischia l’overdose.
Come nasce un racconto, in quale modo?
A. Uso ancora una volta “Itagliani!” come parametro: l’immagine centrale era una donna che picchia il marito. Il Sud ha una lunga tradizione di “masculone” che sopraffanno i maschi e, per una volta, mi divertiva l’idea di parlare di una violenza sugli uomini. Il marito è un impiegato di concetto magrolino e disoccupato e lei invece una donna del popolo che sperava di fare un matrimonio prestigioso e si è trovata a mantenere l’inerme compagno. Così lo picchia tutti i giorni, lo manda in giro pesto e sgualcito. Non è che non gli voglia bene ma proprio non può perdonargli di essere stato una così cocente delusione. E allora lui si organizza per vendicarsi. la moglie ha crisi epilettiche, siamo durante il fascismo, viene a sapere di una visita di Hitler a Napoli e, conoscendo le smanie esoteriche del dittatore, vende una visita alla Sibilla Cumana a Hitler e Mussolini proprio nell’antro della Sibilla, dove mette la moglie a dare i numeri. Solo che lei veramente predice il futuro, in preda alla crisi epilettica. Un esempio di metodo sul nucleo atomico: dietro i due c’è un’immagine lontanissima e infantile, forse le storielle di Mamma Oca, in cui una moglie gigantesca, Cunegonda, sormontava un marito esilino di nome Cirillo. Poi c’è la città con le sue “personagge”. Poi c’era un racconto di mio zio che era stato sommergibilista a Napoli proprio durante la visita di Hitler in città (i sommergibili italiani erano sembrati più di quelli che erano immergendosi e riemergendo di continuo: per lo zio Alberto questa era una vera pièce de resistence, ce la raccontava spesso); e poi c’era la notizia storica del ritrovamento di Cuma proprio durante il fascismo, dunque il sito che tornava a vivere dopo millenni. Ecco, lentamente queste immagini e notizie hanno iniziato ad attrarsi dentro di me e ne è venuto fuori il racconto, che è poi diventato anche uno spettacolo teatrale portato in giro da una magnifica attrice, Margherita Di Rauso.
Il racconto può aiutare a capire il presente?
A. Ogni opera letteraria ci fa in trasparenza cogliere qualcosa del mondo in cui viviamo: non è il suo scopo primario, tuttavia inevitabilmente mostriamo aspetti del mondo in cui viviamo, sia con il racconto, sia con il romanzo. Tuttavia credo che si un grave appiattimento cercare la cronaca, il realismo nella letteratura. E’ una vecchia questione, in Italia. Quando Omero mi racconta i dubbi di Ulisse, quei dubbi sono ancora anche i miei o del politico di turno. Quando Cervantes dice che il mondo ormai è abitato da squallidi politicanti parla ancora di noi. Dunque, non bisogna inseguire il presente in quanto tale, se la storia toccherà una verità umana questa sarà eterna e parlerà a generazioni future indipendentemente dal tasso di attualità che contiene. Spesso, opere centrate sulla sola attualità invecchiano immediatamente, se non hanno trovato lo scarto, la visione, il salto logico.
Cosa può dire il racconto sulla recente storia d’Italia e sulla società italiana?
A. Trovo sempre bellissimo rileggere Arpino e Savinio, oltre D’Arzo: tutti grandissimi narratori di racconti. La babbuina di Arpino, che narra di un uomo che ha sposato una babbuina e dunque metaforicamente della debolezza del maschio e dell’assoluta incomprensione fra uomini e donne, dell’assoggettamento per ignoranza e paura, è una storia del ’68, eppure quanto ancora ci riguarda. Le riflessioni del Signor Dido di Savinio parlano ancora, a decenni di distanza, della crisi di mezz’età, dell’insensatezza della contemporaneità e delle relazioni familiari. E “Casa d’altri” di Silvio D’Arzo, con la Zoe che chiede al prete il permesso di suicidarsi per non vivere più come una capra, tratta ancora della solitudine, dell’eutanasia, dei paradossi dell’umano. Se il genere fosse ancora praticato a questi livelli tutti ce ne gioveremmo. Penso ai bellissimi racconti di Fabrizia Ramondino che narrano per brevissimi e rapinosi squarci Napoli, per esempio.
Quali sono gli scrittori del nostro passato recente che Lei considera dei punti di riferimento per le nuove generazioni?
A. La questione è che anche un riferimento superficiale – molti giovani amici leggono, ad esempio, Bukowski come se fosse un vertice della letteratura mondiale, o Carver, ignorando narratori di ben altro livello, in America, ad esempio i già citati Malamud, ‘O Connor e Munro – dovrebbe poterci condurre a letture più complesse, più dense e verticali. Invece in questo nuovo mondo orizzontale in cui viviamo il presente e il pubblicizzato sono la regola dell’appetibile. Scavare nella letteratura di ogni luogo e tempo porta fuori perle che, se ci fermiamo al recente, o peggio, alle classifiche potremmo non incontrare mai. Se si vuol scrivere racconti, ad esempio, è impossibile farlo senza aver letto e riletto Cechov e Maupassant, Babel’, Mansfield e gli autori che ho citato nelle altre risposte. Fate che la lettura sia una rete con nodi sempre nuovi ogni giorno.
Ci sono scrittori di racconti attuali che vuole menzionare per il loro valore?
A. In Italia c’è un rifiorire di racconti e di autori di racconti, molti sono ancora in fase di verifica, credo che fra le generazioni attestate sia impossibile prescindere da alcune storie brevi di Giulio Mozzi, ad esempio. Ramondino l’ho già citata, sicuramente ha una sua strada specialissima nel racconto Laura Pariani. Il Tondelli di Altri libertini. Sto sicuramente dimenticando qualcuno e me ne scuso.
Cosa ci dice sul fatto che i racconti non si leggono e non si vendono? Lei condivide questa affermazione?
A. Credo sia una fissazione dell’editoria italiana: non solo la storia di novelle e novellatori italiana dovrebbe dirla lunga sulla voglia dei nostri lettori di racconto, ma ci sono anche tanti vantaggi pratici a leggere una raccolta di storie, il potersi interrompere senza danno, il poter leggere in movimento. Ci sono ancora importanti esordi con le raccolte di racconti, però il mercato non risponde. Si sono un po’ viziati i lettori con romanzi di consumo. Bisogna anche dire, però, che il racconto, a farlo con vera arte, non è un genere popolare come lo intendiamo noi oggi. Malamud o Kawabata chiedono un’attenzione enorme, ti astraggono, come Kafka, dal tuo mondo e ti risputano a terra malandato: hai visto tanto, hai saputo troppo e il mistero permane. I veri racconti ti cambiano la vita. Una grande esperienza ma non certo mentre stai dal parrucchiere. I lettori di racconti vanno educati, l’editoria va rieducata alla grande letteratura.
Da scrittrice, cosa si sente di dire ai giovani autori di Emergenza Scrittura che amano scrivere? Quali indicazioni darebbe a un giovane autore di racconti?
A. Di pensare bene al libro: se vuole davvero esordire o lavorare solo sui racconti, deve sapere che troverà ostilità o indifferenza presso la maggior parte degli editori. Dunque, il libro di racconti chiede uno scrittore di qualità superiore e il Nobel a Alice Munro lo conferma. E’ necessario pensare, oltre ai singoli racconti, alla forma dell’insieme che li raccoglierà, si devono tenere insieme bene e forte. Un difetto di tanti miei allievi che non riescono a raggiungere la coesione del romanzo consiste nel pensare che mettere insieme tante storie brevi formerà un libro solido, invece l’esito è che tanti biscotti non fanno una torta. Ci sono direzioni possibili: “Olive Kitteridge” è una finta raccolta di racconti con una sola protagonista che però forma un romanzo. Insomma, quel che conta è restare fedeli a un insieme coeso e solido. C’è sempre da lavorare, come diceva un’altra immensa scrittrice di racconti, Karen Blixen – “Il pranzo di Babette” è un apice irraggiungibile, come l’”Anna, soror” di Marguerite Yourcenar – e bisogna farlo tutti i giorni “senza speranza e senza disperazione”.
Intervista a cura di Gianluca Massimini per Emergenza Scrittura