Composta come un antico florilegio, in cui i versi migliori, quelli “scelti” e più rappresentativi di un poeta venivano raccolti per proporne il meglio al lettore, illustrandone con l’occasione anche i percorsi tematici prediletti, Le inenarrabili tribolazioni della poesia in tempi di barbarie. Fiori raccolti in Italia e in Europa di Lodovica San Guedoro è un’opera molto articolata che, con un intento nobile e toni appassionati, raccoglie i fiori delle tribolazioni di tre autori: Carlo Maria Steiner, Johann Lerchenwald e Lodovica San Guedoro, offrendoci uno spaccato estremamente accurato della vita, e dei dolori, dello scrittore contemporaneo.
La scelta proposta, infatti, che consente tra l’altro di apprezzare anche l’abilità stilistica della San Guedoro che ha di volta in volta, nel corso degli anni, modulato la propria voce vestendola di accenti e sfumature diversi a seconda dei generi e degli argomenti prescelti (dal registro lirico di Agonia, romanzo dall’aria algida e rarefatta, a quello comico di Amore è stufo, alla prosa ritmica e musicale di D’Argolo e Ginevra trasgressive le avventure, al dolce e raffinato passo romanzesco di Pastor che a notte ombrosa nel bosco si perdé… e di Amor che torni…), ci fornisce un’idea davvero ampia e precisa del tormento, dell’affanno e delle delusioni patiti, nonché delle tante traversie incontrate sulla via dai tre scrittori succitati, il tutto per vedersi riconosciuti ed apprezzati nel mondo letterario, non agevolati in alcun modo in questo arduo tentativo né dall’editoria odierna, più attenta alle logiche di mercato che alla qualità delle opere e che a tal motivo li rifiuta, né dal favore della critica, che si dimostra spesso sorda, se non addirittura ambigua e servile, tanto meno dall’apprezzamento del fantomatico “lettore medio”, troppo pigro, poco sveglio, assuefatto irreparabilmente a una ipertrofia di proposte mediocri che non lo ha portato in alcun modo, purtroppo, a sviluppare un gusto letterario.
Se la vocazione ad essere un’artista, rievocata dalla San Guedoro in una delle splendide pagine di Agonia, segna dunque l’avvio di un percorso lungo e travagliato, perseguito con coraggio infrangendo “tutti gli ostacoli interiori ed esteriori” e avendo “spezzato diverse tavole di comandamenti, cambiato diverse città, cambiato paese“, i brani che vi fanno seguito ben rendono il non facile rapporto tra l’autrice e il suo paese natale (“questo suo fottuto paese ha un enorme debito con lei, un debito che non potrà mai estinguere“), che qui appare indifferente, ingrato, capace di riservarle rifiuti e voltafaccia inaspettati od occasioni mancate (“Giorno dopo giorno, per sette infiniti anni, prima di fuggire in Germania, aveva sperato e disperato di trovare nella cassetta della posta una lettera decisiva, una lettera che facesse balzare il suo cuore e svincolasse dai suoi polmoni un grido liberatorio: ma nessun editore italiano, grande o del Nord o del Sud, era stato in grado di scriverla, nessuna delle loro ipocrite e inconcludenti lettere, di quelle lettere che sordamente si affastellavano l’una sull’altra, era andata mai al di là di vacui giudizi lusinghieri, per lei altrettante subdole lame.” in L’ultima estate di Teresa Tellez), ostaggio purtroppo di una gerontocrazia proterva che vi alligna grazie al servaggio e al familismo di cui si circonda (vedi Requiem d’Arlecchino) e che soffoca ogni tentativo fatto da chi invece conta solo sulle proprie forze e sul proprio valore, e contro la quale (come l’Alfredo di Amore è stufo che esprime tutto il suo rancore contro il Sommo sacerdote del Teatro di Stato) la San Guedoro leva giustamente il suo atto d’accusa (“E’ il sommo sacerdote infatti della combriccola dei sacerdoti del teatro di Stato, dell’antichissima dinastia dei sacerdoti Bing, che hanno amministrato il culto per millenni e suonato il gong nel paese dei Ding.“).
Non meno acute, poiché altamente illuminanti sulla prassi e sulle dinamiche che lo regolano, risultano inoltre le pagine dedicate al mondo editoriale, un mondo reo di prediligere per lo più la vendita di opere fatue e inconsistenti, colpevolmente concepite e redatte su misura per un lettore superficiale e poco pretenzioso, a volte rozzo e privo di gusto, che non ha tempo, che non cerca le raffinatezze e tanto meno le comprende (splendide sono le pagine su Il codice da Vinci, che assurge a simbolo di queste opere sciatte, apoteosi della trivialità, in Requiem di Arlecchino), che può dunque render vani, come in Fedra e le mammine nei caffè, gli sforzi compositivi in versi della protagonista, consapevole purtroppo di doverne assecondare le inclinazioni per poter essere letta, con il rischio però di generare un’opera informe e priva di grazia (situazione che può generare anche sconcerto, come accade all’io narrante in L’ultima estate di Teresa Tellez, alla conclusione di un’opera).
Feroci, allora, e a buon diritto comprensibili, paiono le critiche mosse in più passi agli usi e ai costumi dei barbari, cioè di coloro che hanno fatto dell’Arte un mercimonio, o che non la apprezzano, “non ci arrivano”, privi come sono di interesse e di qualsiasi curiosità culturale (è la teppaglia descritta in D’Argolo e Ginevra trasgressive le avventure, che invade la dimora dei protagonisti e insozza tutto, senza alcun rispetto), ma anche di quelli, incarnati esemplarmente dallo stalliere di Amore è stufo (e già oggetto di disprezzo da parte del fine Friedenthal nel giallo letterario Incitazione a delinquere), che appena alfabetizzati e punti dalla smania di esternare al mondo le proprie paturnie o gli imperdibili sussulti del cuore, inondano le case editrici, le riviste e i blog di centinaia di poesie o di pagine inutili senza averne mai scritta una degna di tale nome, contribuendo così ad alimentare il mare magnum di proposte mediocri in cui oggi anneghiamo tutti (lapidaria quanto provocatoria, al riguardo, la constatazione in Amore è stufo: “Se penso che è poi con lo sterco di questi quadrupedi impappagalliti che si affollano i tavoli delle case editrici! Che sono questi i nostri rivali, quelli con cui ci dobbiamo misurare, quelli che ci tolgono la gloria, il sonno e ogni cosa!“).
Si delinea a tutto tondo, insomma, non senza una certa amarezza, il ritratto di uno scrittore oggi più che mai impegnato in un’estenuante lotta per il proprio riconoscimento, perso nella folle rincorsa di critici o pseudo tali che lo ignorano o che promettono invano, o dietro a premi dalle regole e dagli esiti a volte discutibili, così indaffarato nel lavorio incessante per dar vita alla propria arte e al tempo stesso così poco considerato, riconosciuto, interpellato, sopraffatto invece dal mercato, in bilico tra un riconoscimento effimero e un silenzio smisurato, vilipeso da una congiuntura storica che sembra trovare la sua sintesi migliore nell’epilogo de Gli avventurosi Simplicissimi (“Non c’è opera d’arte maggiore e più difficile di quella di vivere da artisti in tempi come i nostri. Se un primato la nostra epoca ha nei confronti di quelle che l’hanno preceduta e di quelle che, per fortuna, la seguiranno, è proprio quello di aver rinnegato l’Arte dalle fondamenta: cioè, non solo l’Arte, ma anche tutto quanto la fa nascere e la fa vivere.“), e il cui destino sembra ben tratteggiato, purtroppo, nelle impietose parole della stessa San Guedoro: “nessuna pietà per te, povero artista! Tu puoi crepare tranquillamente sotto un ponte, nel tuo letto, sotto un tram, che importanza ha?!“
Recensione apparsa su Lankenauta.
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