Il lume della follia

  Con il suo “Il lume della follia“, edito da Oèdipus Edizioni nel dicembre del 2019 (Il lume della follia, Oèdipus Edizioni, 2019, pp.. 65), il poeta e pittore campano Prisco De Vivo ci consegna una raccolta di versi il cui titolo spiazzante, dall’immediato effetto straniante, è l’ideale chiave di accesso a una visione del tutto singolare, ma alquanto feconda, della follia, o meglio di quella che potremmo leggere come santa follia, e che San Paolo indicò come necessaria per divenir sapienti quando parlò del mistero della Croce, ma anche di quella, da intendere in senso lato, condivisa nelle opere dai poeti e dagli artisti, quella che accende e alimenta il fuoco dell’inventiva, che dà voce e consistenza alla vita attraverso la parola o la materia o l’espressione figurativa.

In un mondo in cui infatti la razionalità, o quella che si presume tale, ha prodotto nel passato e produce tuttora genocidi e disastri umanitari (le “maledizioni terrene” di cui ci parla la Merini ricordata in epigrafe), spesso legittimati dinanzi al vuoto simulacro della normalità, è nella sacra fiamma della follia, nella visionarietà dei poeti e degli artisti, nei barlumi di luce dell’estro creativo, come nell’abbandono e nel trasporto mistico dei santi – i soli e unici che riescono a cogliere ciò che è “altro” – e nel loro volo estatico, che si può trovare la via, che si intravede per De Vivo il vero e ci si può ricongiungere con esso.

Ecco che allora è nell’estraneità, nella dissomiglianza, nella “malattia” dei poeti e degli artisti colpiti a volte dall’ostrakon, segnati da uno stigma o estromessi dal consesso civile, nonché suicidati dalla società, che risorge la speranza – così impossibilitata ad attingere all’ordinario, alla vita di ogni giorno, se non nell’atto misterioso del processo creativo o nel sogno – di udire le voci e l’urlo sotterraneo da cui provengono le ferite degli uomini (“Da / un / urlo / sotterraneo / provengono le ferite di questi uomini / urlo che lacera passi / urlo che fracassa / frattura / sfonda / urlo dalla finestra delle stazioni / dalle fogne / dal buco del lavandino / Guardo in bocca ai malati che / rompevano con i denti / i vetri delle strade / dalle loro fauci / sbucano fiori di colore vermiglio.” – Da un urlo sotterraneo). Ma dare voce al lume della follia è anche un esperire l’alterità in tutte le sue forme: è accogliere l’ombra in cui il poeta o l’artista si immerge per portare in superficie la luce, è un illuminare l’armonia e la perfezione ma anche l’orrido, in una ricerca ardita e carica di sofferenza che ha la consapevolezza come traguardo. Nella silloge di De Vivo questo messaggio coinvolge i singoli e la collettività: si sostanzia nella vita dei poeti dell’ombra evocati nella sezione finale della silloge, per esempio, come pure in tanti momenti emblematici dell’io lirico.

Non mancano infatti episodi ed incidenti dell’animo in cui, di fronte all’ombra cupa che emerge, ci si vede restituiti all’istante in tutta la propria finitudine, tanto da tremare fin nel midollo (“Un copertino giallo / copre una donna ulcerata / un piccolo corpo di cisti e verruche. / Le mie ossa si incollano alla ringhiera.“, da Il copertino giallo), o in cui l’altro da sé, che dal sé pure emerge a volte, può prendere forma in una visione mattutina che spiazza e disarma totalmente, e che va subito ricondotta con timore sui binari di un percorso più rassicurante (“Con fosforo nel palmo delle mani / alito vapore che assomiglia / al “verde dell’anima” / la tentazione è forte / Cacciare fuori l’altro di me? / O fermarsi solo allo scambio? / Mi basta poco che ritorna / sulla lavatrice / – l’ossidata faccia del dott. Jekill -“ da Visione mattutina), sebbene riaffiori insistentemente, come quando origina una commistione di cupido desiderio e di innocenza immacolata felicemente resa in quella coppia ossimorica di feroce piacere che riassume in sé il trepido accostamento di maturità peccaminosa e candore virginale in Della candida vergine, o quando rivela tutta la stanchezza profonda dovuta al rimestare su di sé, sulla propria microvita fatta di sudore e di rancore, di ferite imposte, che induce ad eludere sorprendentemente ogni annuncio, a rifiutare l’Angelo che pure potrebbe salvarci (Rimestare), così pure quando desta un desiderio di nullificazione che porta a quietare bisogni e pensieri ulcerosi: “Voglio nullificarmi / davanti ad antichi portoni / con i piedi bagnati / e la mente ulcerata / dai desideri. / Voglio diventare un tronco d’edera.” (da Trasfigurazione, desiderio rivolto anche a quel tormento così totalizzante descritto ne Nella camera del dispensario: “Nella camera del dispensario / una testa tonda / dalle trecce dorate / un’agonia di profumi… / luccicante pelle / di fosca bellezza. / Dietro la porta ripetevo all’infinito: / “Se vuoi fammi morire!”). Questo annientamento di sé, così assiduamente cercato dal poeta, può trovar pace nel sogno (“Il peso delle idee / si annulla dormendo.” in Azzeramento) ma può anche farsi più tangibile, come in Lettera di mio zio (a cui è dedicata la raccolta), in cui il male e la sofferenza inflitta alla carne e allo spirito hanno il crudo volto della vita e rimandano all’immagine di un Cristo sofferente (“Quando riuscirò a morire veramente / liberandomi dall’inferno, / delle colonne coclidi, / dal polistirolo dei farmaci / dalla dissenteria dell’anima.“).

Sono tanti in questa silloge, in linea con la brevitas formale e con le visioni dell’anima dipinte dall’autore, parte integrante della raccolta, gli elementi sincretici, nonché i simboli stazionari che si evidenziano (sono tante le stazioni, i punti di arrivo e di partenza, i cancelli, gli specchi in cui ci si riflette) e che evocano di volta in volta uno snodo sulla via, l’approdo e la necessità di un bilancio del percorso, in cui non di rado prende forma un redde rationem con se stessi che non fa sconti e che è in fondo l’esito di una ricerca di senso a quello che si è e che si è fatto.

Avvicinarsi al lume che rischiara, al riverbero del vero a cui la follia ci introduce, può portare a scottarsi le dita, sembra dirci De Vivo, a sentire il dolore acuto sulla carne, a bruciare tra mille sofferenze, ma può essere anche la via che, per nostra fortuna, può condurci a una palingenesi, ed è forse anche la premessa necessaria affinché nella terra il seme metta radici e torni a germinare, e a dare consistenza alla vita.

Prisco De Vivo, Il lume della follia, Oèdipus Edizioni, 2019, pag. 65, prefazione di Alfonso Guida

Recensione apparsa su Frequenze poetiche. Rivista di poesia internazionale ed altro

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