Pezzi. Dal regno della litweb

  Pur essendo dinanzi a una scelta di tutto quello che è apparso in questi anni sul blog Il Regno della litweb, non ci vuol molto a capire che Pezzi. Dal regno della litweb di Ippolita Luzzo, edito da Città del Sole Edizioni nel 2018, è in realtà una miniera vastissima, inesauribile, di articoli, di interventi, di riflessioni di vario genere, di “pezzi” appunto, a cui poter attingere a piene mani per avere una rapida e composita panoramica su quello che è accaduto nell’ultimo decennio nel mondo delle lettere (e non solo).

Il volume, infatti, accoglie al suo interno interventi che vanno dal giugno del 2012, mese di nascita del blog, fino al 2018 inoltrato, fino cioè alla pubblicazione in rete della frase di Raffaele La Capria assunta dalla autrice e redattrice lametina come sintesi perfetta della Litweb e dello spirito che la anima (“Un’identità forte è una finestra sul mondo, capace di includere in sé anche le altre. Se è debole, invece, si limita a glorificare se stessa, rinchiudendosi nei confini del localismo”), che ha sempre inteso questa pluriennale attività di indagine e di ricerca letteraria come una finestra spalancata sul mondo, uno sguardo che non vuole circoscrivere la propria osservazione all’ambito locale, in un perimetro troppo ristretto, ma che aspira per principio ad aprirsi a realtà plurime con la speranza di appropriarsi della grande ricchezza e delle tante opportunità che l’editoria e la cultura nel suo complesso veicolano con i testi e con le opere tutte.

Sono articoli di cui è facile apprezzare l’autenticità, la spontaneità, nonché una vis polemica che, come dice Bruno Corino nella prefazione, è a tratti divertente e a tratti dissacrante, frutto di uno spirito vivace e indipendente che non teme di andare controcorrente e che, abituato com’è a prendere le cose di petto, lo fa senza remore o timori di sorta. Sono “pezzi” che in rete hanno spesso avuto grande riscontro di contatti, come “Io non sono una donna del sud“, che ben potrebbe assurgere a manifesto contro i pregiudizi e gli stereotipi di genere (“Io non sono una donna del sud / Non ho mai fatto la salsa di pomodoro / Le melanzane ripiene, la conserva di peperoni. / Non ho mai insaccato una salsiccia, non l’ho mai bucherellata / Mi fa senso il sanguinaccio, non lo mangerei mai / Non pranzo dalla suocera, però l’ho tanto amata. / Non vado a matrimoni, battesimi e prime comunioni / Non vado neppure ai funerali. / Come potrei salutare quelle persone / Affrante / Messe lì, / In fila indiana / Non conosco il parentado, non ricordo i vari gradi / Mi sfuggono gli intrecci, proprio quelli più succosi / Mi distraggo e poi apro le finestre, tiro giù le tende / Su balconi spalancati.“) o L’invenzione più innaturale del nostro secolo, una tremenda, lucida analisi della odierna famiglia unicellulare, o come tanti altri post nei quali la Luzzo è abile nel mettere alla berlina le piccole velleità e l’ipocrisia dei “nuovi carbonari” (“Eppure / Vivono nel terrore che tu possa sapere / Soltanto un indirizzo, che tu possa scoprire / Che sono solo umani, con gambe, culi e seni, / Con rughe e con acciacchi, / disoccupati, licenziati, / Indebitati e stanchi di essere normali. / I nuovi carbonari così vogliono restare, / Un nick, solo un nick da incasellare in Hanno bruciato gli archivi comunali) o appare fortemente caustica, feroce, nel puntare l’indice sulle tante, troppe, stranezze o magagne del nostro paese (“Giocarsela ai dadi come la tunica di Gesù. / La nuova democrazia sarà un gioco. / Tiriamo a sorte e vincerà il più fortunato, colui o colei, che avrà / la dea bendata a fianco a sé. / Il governo di una città, di un comune, di una nazione, almeno la / sorte avrà favorevole.“, come pure: “Il voto non esiste più. Esiste solo / lo scambio.” in La democrazia come la tunica di Gesù) o contro una mentalità atavica dura a morire, che vede le donne ancora sottomesse (“Troppe donne vengono uccise, troppe donne vengono picchiate e / tutte, proprio tutte, chiudono un occhio, anche due, sulle innocenti / evasioni di un carissimo lui, basti che torni a casa.” in “Ho visto donne: sogno di un otto marzo che sia il Quarantotto dell’identità condivisa“). Così come si apprezzano le amare e dolenti riflessioni sulla sua terra natale in Che torni a fare al sud? (“Che torni a fare al sud? / Se non sei figlio di assessore comunale, / Se tuo padre non ha uno studio legale, / Se tua madre non se la intende col presidente regionale… / Che torni a fare al sud, laureato… / Su, resta in campagna, coltiva polli e conigli, zappa la terra e vedrai / quanti soldini farai.“), oppure l’ironica quanto amara Una città coltadina e le lodi ai (pochi) libri che denunciano il malaffare (La dolce Euchessina) o che hanno in sé una forte carica eversiva (Le relazioni pericolose), nonché il biasimo rivolto ad atteggiamenti diffusi ma moralmente inaccettabili (La prostituzione culturale e la malafede o Il Mercato della Cultura).

È la voce di chi ha dedicato la propria vita alla letteratura, di chi ha sempre visto nei libri e nel mondo editoriale degli interlocutori con cui intessere un dialogo fervido di opportunità di crescita interiore e collettiva, perché come giustamente ci ricorda: “Leggere è un atto sacro, leggere è rivoluzionario, leggere sempre / e solo ti dà la libertà di rifiutare una Euchessina di solo regime.

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Recensione apparsa su Lankenauta.