Terzo titolo della collana Poesia della casa editrice Il ramo e la foglia edizioni, Poco allegretto è una preziosa quanto piacevole raccolta di rime che porta all’attenzione dei lettori italiani l’opera del poeta portoghese Manuel De Freitas, una voce molto apprezzata in patria ma poco conosciuta nel nostro paese.
È una silloge, curata e tradotta da Roberto Maggiani, che ci propone una scelta molto ampia di liriche (vanno dal 2000, anno di pubblicazione di Todos contentes e Eu Também, primo titolo del poeta, al 2014, anno in cui ha visto la luce Ubi sunt) e che dunque ha il merito di fornirci un ritratto a tutto tondo di uno degli autori più originali ed interessanti della poesia portoghese contemporanea, un autore che ha fatto dell’ordinario, e della irrimediabile caducità delle cose, l’oggetto privilegiato del suo poetare. De Freitas è infatti il cantore della vita, più propriamente della sua fuggevolezza, della quotidianità colta negli aspetti concreti, anche umili e dimessi, e di Lisbona in primo luogo, città amata e ritratta esemplarmente con le sue piazze e le sue vie, i suoi locali tipici, nella sua perenne decadenza (“Intanto Lisbona si rassegna / a essere questa mistura marcia / di malinconia e pace / che per me va bene / e tale rimarrà / per il breve viaggio delle ossa.“), ma è altresì il cantore del suo corrispettivo, della morte, poiché nei suoi versi ad ogni promessa di vita che occhieggia in una via, da un portone o in una taverna, in un caffè storico della capitale, non si disgiunge mai la presa di coscienza di dovervi prima o poi rinunciare (“Qualcuno ti chiama / dalle profondità del burrone, / fragile promessa di vita / a cui dovrai rinunciare.“).
Se infatti il poeta sembra riservare, da un lato, uno sguardo intriso di dolcezza ai ricordi dell’infanzia o dei suoi familiari (frequenti sono i riferimenti alla figura paterna o ai nonni: “Non so se la cultura aiuti. Preferirei / a qualsiasi opera di Bach / che la musica ambulante dell’arrotino / potesse di nuovo portarmi nell’infanzia, / nella breve infanzia in cui entrambi siamo vivi, / seduti sulla veranda. Nell’attesa di giorni / uguali, sotto l’ombra alta dei pini.“), dall’altro, in questo suo peregrinare quotidiano tra le vie della città in agonia e in lento dissolvimento, è accompagnato costantemente dall’idea della fine, di volta in volta evocata, lusingata, elusa o allontanata, ma dalla quale non può mai separarsi (“La morte è come i locandieri: non chiede l’età. / Ci serve, indistintamente, cicuta in bicchieri puliti / e ci invita con gli occhi bassi per l’ultimo fandango.“) perché è organica al suo essere (“Noi i vivi, gli apparentemente vivi, / siamo di fatto l’unico problema: / una musica povera, un cancro sincero che sorride.“), risultando egli stesso, lo dice con ironia, “il più bel cadavere di Lisbona.“
Questa sua lettura onesta delle cose, che nasce da un’estrema consapevolezza della loro natura transitoria, non fa però che acuire il valore del presente e della sua bellezza morente, del corpo e delle passioni che lo inebriano, del vino e della musica di Bach, della compagnia di uno sconosciuto con cui per una notte si può condividere la sorte, come di tutto ciò che può rendere felici e appagare seppur per poche ore. “Ma a noi i vivi piacciono solo le cose serie, / palpabili, come la birra tarda ora, il fado vagabondo / o il sangue di una bifara che ci scivola / dalle labbra” ci dice infatti il poeta, che a più riprese evoca un mondo che è in fondo l’immagine fedele del suo stato d’animo, lo specchio della sua natura inquieta, una realtà che osserva e descrive nella piena convinzione che i luoghi, gli individui e le situazioni ricordati, come del resto i propri versi, facciano parte della “rissa senza oggetto che chiamiamo vita“.
In questo universo tragico votato alla dissoluzione, ad essere messa in discussione, senza mezzi termini, è la capacità della poesia di aiutarci a comprendere il tutto, di svelare verità o sensi reconditi, come pure la sua idoneità ad allontanare la morte tanto citata. Poca cosa, semmai una lieve consolazione, è la possibilità di giungere con i versi e con la parola, fatuo surrogato della vita, laddove non è arrivato il corpo (“I versi sono quasi sempre questo: un modo / inaccettabile di dire che non abbiamo toccato il corpo / che è stato, per una volta, così vicino / a noi – e che neppure un nome breve già lasciato.“). Da qui l’assunto, che è poi una certezza, che non sia il fare poetico a conferire uno status di privilegio all’autore o ad assicurargli la salvezza dal presente (“le strade si nascondono da noi” ci dice in Arte Poetica (II)), come dalla generazione di cui fa parte, con la quale non sembra trovare delle affinità o una possibile conciliazione, ma anche una qualsiasi parvenza di incolumità da se stesso, che non esita a definire come “la peggiore delle compagnie“. Il poeta è in sostanza un uomo come tutti, come è detto con chiarezza in Os poetas (“I poeti fottono, cagano, / gli piacciano o non gli piacciano / francesinhas e marinai. / Hanno, come tutta la gente, da vigilare / il colesterolo e da pagare le tasse.“)
È una poesia dunque che, lungi dal cercare vie alternative al reale e tanto meno un conforto in bizzarre soluzioni metafisiche, ama ricondurre l’uomo alla sua dimensione più propria, quella di un quotidiano dimesso ma dignitoso, a suo modo prezioso, in cui l’unica verità che il poeta si sente di rivelare e di consegnare nelle mani del lettore sembra essere quella affidata all’ultimo verso del congedo di Arte domestica: “E, soprattutto, non cercare mai di sapere.“