Racconti a orologeria

  Racconti a orologeria, ventitreesimo titolo della interessante collana Elit edita da Mimesis, è un libro del poeta e scrittore bosniaco Faruk Šehic che pone al centro della narrazione e delle riflessioni che la accompagnano l’esperienza tragica e dolorosa della guerra, quella che agli inizi degli anni Novanta incendiò la penisola balcanica con gli esiti tragici che noi tutti conosciamo e alla quale l’autore prese parte in prima persona quando nel 1992, poco più che ventenne e studente di veterinaria, decise di arruolarsi nell’esercito bosniaco, tra le cui fila militò per quattro anni.

Gli episodi raccontati, relativi soprattutto a momenti di stretta quotidianità, ma anche a marce, devastazioni, a eserciti che incombono sul fronte e, purtroppo, a eccidi efferati, ritraggono senza mezzi termini, con un linguaggio sobrio che non disdegna a volte il ricorso a un tono poetico, una realtà fredda e spietata in cui l’uomo è incredibilmente abbrutito, accecato, ridotto dalle circostanze in condizioni bestiali, vittima di impulsi primordiali che lo portano ad uccidere e a perpetrare violenze di cui a stento si riesce a trovare un senso e che ne fanno in ogni caso un carnefice ma anche un reduce sopraffatto dai tanti sensi di colpa, ossessionato dai ricordi, che alimentano un’idea di fine del mondo dal carattere apocalittico a cui sente di non poter sfuggire in alcun modo (“La mia fine del mondo non è frutto della punizione Divina, del malcontento del Creatore a causa del nostro stile di vita. La mia fine del mondo è una sensazione personale che non mi abbandona dalla fine della nostra guerra.“).

Costanti appaiono nelle pagine la visione delle atrocità della guerra come di un qualcosa che sfugga all’umana comprensione (“Quando qualcuno mi spiegherà che tipo di uomo è quello che una mattina del 1992 si sveglia, prende il fucile dalla soffitta, appende la bandiera serba con le quattro S sopra l’uscio di casa e se ne va dal vicino, lo costringe a uscire di casa, inginocchiarsi nel fango, poi estrae la baionetta e sgozza un essere umano, il vicino, un fratello, un amico di vecchia data… Quando qualcuno me lo spiegherà razionalmente, ne elencherà le semplici ragioni, mi sarà più facile vivere.“) e quella di un conflitto bellico come di un meccanismo malvagio e ostinato che travolge e si accanisce sugli innocenti, che non ne capiscono il motivo di fondo ma che tentano in ogni caso di resistergli come possono, con le proprie forze, come accade ne Il dono (“Non riuscivamo ad afferrare la ragione della guerra, nemmeno che cosa avesse portato la gente ad ammazzarsi, cosa che loro giustificavano ricorrendo a sacri ideali. Tenevamo a mente soltanto il numero dei morti e dei feriti.“). È una sorte a cui pure si oppone il ricordo nostalgico delle cose perdute o solo immaginate perché mai realizzate, delle piccole cose di ogni giorno che possono invece aprire varchi verso nuovi mondi, soprattutto se si è giovani, come accade ai protagonisti de I sognatori (“Realizzavamo i nostri piccoli sogni quotidiani“), primo racconto della raccolta che, non a caso, testimonia una condizione di spensieratezza e di innocenza destinata a svanire con l’approssimarsi dei tragici eventi.

Grande importanza hanno gli orologi spesso menzionati e a cui allude anche il titolo della raccolta: orologi da taschino, da parete, da polso, che rimandano a un rapporto intimo e spesso controverso con il tempo che ha le sue radici nell’infanzia di chi scrive o di chi narra (“Durante l’infanzia l’orologio da parete con la scritta in lettere barocche tempus fugit risvegliava in me la gioia silenziosa e la malinconia dei giorni passati, mentre la lancetta grande, come una bussola, annunciava il tempo che doveva ancora venire. Avevo un orologio da polso, il cui colore era una via di mezzo tra il verde e blu , con le lancette e numeri fosforescenti. Di rado lo portavo al polso punto lo custodivo sulla scrivania in camera mia e ogni tanto guardavo come rispondeva nel buio. L’orologio viveva la sua vita segreta diversa da quella che si viveva nel mondo fuori. Lo percepivo come un essere scintillante con un cuore di rubino rosso.“), orologi spesso accompagnati da descrizioni minuziose (“Il quadrante era blu, blue sunburst, il che conferiva all’orologio un aspetto antiquato. Quello che più amavo era il dress vintage style. Aveva il vetrino in cristallo di zaffiro arrotondato, soltanto un diamante avrebbe potuto scalfirlo. Sullo sfondo c’era una finestrella di cristallo di zaffiro trasparente da cui si poteva vedere il meccanismo che lo regolava.“) che tradiscono dunque una conoscenza estrema, quasi maniacale, dei meccanismi di un oggetto che assurge in molti casi a simbolo dai significati plurimi (“Ogni orologio meccanico è un opera di pura poesia. E questo perché l’orologio, come strumento, serve per catturare una delle essenze metafisiche più imprendibili, ossia il passaggio del tempo. l’orologio è materiale, il tempo no. Ogni ingranaggio del meccanismo dell’orologio tende alla precisione, che tuttavia tradisce sempre, esattamente come la poesia tende alla verità del Cosmo, proprio quando sembra totalmente arbitraria e vacillante.“). La metafora dell’orologio evoca infatti la presenza di un tempo infinitamente più grande e più giudizioso dell’uomo, un tempo che lo sovrasta e lo condanna a volte all’insignificanza, a sparire irrimediabilmente come le tante persone morte sul fronte, di cui non rimarrà forse che un pallido ricordo (tema ben espresso nel racconto Il tempo passa: “Abbiamo continuato a bere. La notte prometteva di farci dimenticare la guerra e ricordarci che il tempo ha un suo ritmo, nel quale Le vite degli esseri umani non hanno alcun ruolo.“), ma che può anche favorire, al contrario, la “permanenza della memoria“, quella giusta e sacrosanta, doverosa della testimonianza, quella che può ossessionarti nei sogni notturni e che non ti dà tregua, non si rassegna (Shape-Shifter).

In più punti l’autore sembra dirci che le parole e il linguaggio possono essere uno strumento imperfetto per descrivere la realtà delle cose (“Le parole sono impotenti come palloncini bucati. Sgocciolano quell’essenza di cui parlano i poeti.“), ma è pur sempre un linguaggio che nella prosa di Šehic si fa spesso poesia (“Centinaia di minuscoli soli si sono intrufolati a fatica tra le lamelle delle persiane di legno trasformandosi in spade che hanno iniziato a tremolare perdendo la loro forma minacciosa. Sul parquet si sono formate piccole pozzanghere sfavillanti e luminose. Vibranti utopie. Ci siamo stretti sotto la coperta rossa. Circondati dalle fauci bavose del mondo esterno.“) e che, in quanto tale, apre alla bellezza della vita e ripone una grande fiducia nel potere illuminante della scrittura, o meglio della testimonianza, che può e che deve essere data, soprattutto dinanzi all’orrore (“So già dove finirò. Ho il presentimento di quale sarà la mia ultima forma. Sarò un gatto bianconero sotto la carrozzeria di una macchina bruciata in via Reuf Selmanagić Crni, a Srebrenica, l’11 luglio 1995. So che sarò lì, in quella forma di vita. Perfettamente al sicuro nella pelliccia da gatto. Guarderò la strada nascosto dietro il cerchione della ruota di un’auto. Vedrò tutto e ricorderò ogni cosa. Devo fare così. Qualcuno dovrà testimoniare in futuro. Qualcuno dovrà continuare dimostrare che il crimine c’è stato, che gli ebrei non si erano in tossicati da soli nelle camere a gas. Per questo ho deciso di essere il portavoce dei morti.“). È una narrazione che può assumere a volte un tono onirico e surreale, anche allucinato (Matrix a Belgrado), ma che è sulla carta l’esatto corrispettivo di quello che può accadere nella vita di tutti i giorni, ancor più quando si conosce in prima persona barbarie e violenza, laddove l’atrocità del male perpetrato dall’uomo può benissimo superare ogni immaginario.

È dunque un libro molto suggestivo che, attraverso la riflessione sul tempo e sulla vita, ci parla della dissoluzione di una identità storica e politica, nonché personale, che mai e poi mai, dopo l’esperienza tragica della guerra, potrà tornare ad essere quella di una volta né potrà recuperare in alcun modo l’innocenza perduta, ma che ci racconta anche, senza infingimenti, della scomparsa dell’umanità intera.

Recensione apparsa su Lankenauta.

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