E allora, come da accordi, ognuno per la propria strada, senza troppe storie, senza tanti intoppi: lui in casa con i figli, ad accudirli e ad accertarsi che tutto andasse bene, provvedendo anche a farli mangiare, e lei a passare il suo weekend d’amore con quel Mauro, in Maremma, a Orbetello, come gli aveva annunciato qualche tempo prima.
Si erano accordati così, da quando Sara, cinque mesi or sono, gli aveva comunicato per lealtà che aveva intrapreso una relazione con un altro, un collega di lavoro, un manager che le si era insinuato nella testa all’improvviso come un chiodo fisso e di cui non era più riuscita a liberarsi, un amore a prima vista travolgente, magico, passionale per entrambi. E lui, del tutto sorpreso da quell’evento inaspettato, era rimasto tramortito, senza parole a quella confessione sincera e per questo più temibile, perché fatta alla luce del sole, e perché mai, a pensarci bene, avrebbe sospettato una crisi così grave.
Aveva provato innanzitutto a fare il punto, a razionalizzare: cosa c’era stato in fondo tra loro che non aveva funzionato, che non era andato più bene? cosa aveva potuto spingerla così lontana, tra le braccia di un altro? e cosa aveva potuto trovare in quella storia che non avesse già in casa? Si era interrogato a lungo, arrovellandosi a non finire.
Forse la maternità in quegli anni si era rivelata troppo asfissiante, claustrofobica, con tutto quello stravolgimento di ormoni che esplodono e che ti buttano a terra come in un naufragio, oppure il tran tran quotidiano e la vita d’ufficio l’avevano stancata, annoiata, prospettandole una strada ormai troppo tranquilla mentre dall’altra parte ci sono i sogni. Forse vuole solo divertirsi e cercare un po’ di svago, era giunto a dirsi, distrarsi dopo anni di routine e di corse tribolate, di pappe e di magliette stirate tutti i santi giorni!, e questo forse poteva accettarlo, anche se a fatica. Sarebbe valso allora di più il valorizzarla, in casa, coi bambini, nelle piccole cose di ogni giorno, affinché ritrovasse quel senso della famiglia che aveva invece smarrito… Oppure era stato lui che negli anni si era adagiato, impigrito, che aveva perso quel mordente, quel carisma che un tempo l’aveva reso affascinante agli occhi della moglie, che non trovava in lui più nulla di buono e di interessante.
Ci pensava e ripensava ancora adesso mentre giocava con la figlia, e non riusciva a darsi pace, quando questa all’improvviso lo chiamò:
– Papà, insomma! Vuoi giocare?
– Sì, certo, amore mio! – e s’affrettò a muovere una pedina sul tavolo da gioco.
Eppure nel corso degli anni Sara gli era apparsa tutta un’altra donna da come si era rivelata ora, negli ultimi tempi. Non era mai stata, per esempio, così fredda e senza cuore da nascondergli una cosa talmente grande e da metterlo al muro solo a cose fatte, senza neanche parlarne. Non era mai stata crudele con le persone che aveva accanto, tanto meno con lui, anzi! Né aveva mai ignorato con un tale egoismo le possibili conseguenze dei suoi gesti, come in quest’ultimo caso.
Quando l’aveva conosciuta, all’università, era stata una ragazza semplice e gioviale che amava sorridergli da lontano al primo sguardo, quando s’incontravano, e che gli faceva sempre tante feste, lo abbracciava e lo copriva di baci. Una giovane donna che lo cercava, lo chiamava, che quando più tardi avevano cominciato ad uscire insieme e a far coppia fissa si era mostrata entusiasta di quel che facevano, di dove andavano; che ci teneva a far progetti su di loro e i loro viaggi, con l’idea di vivere perennemente un qualcosa di esaltante. Tutta un’altra storia da quella che, insomma, aveva sotto gli occhi.
Ora per lo più lo ignorava, e il più delle volte gli sfuggiva. Si chiudeva, giunta a sera, in camera da letto e riuscire a parlarle era sempre più difficile, se non impossibile, e questo suo atteggiamento lo umiliava, lo stizziva, tanto più adesso che era presa da questo amore, da questa storia assurda che le aveva fatto metter via ogni altra cosa. Ma cos’era successo? E come era possibile? si chiedeva.
Così che quando la vedeva assorta o trasognata, con la testa tra le nuvole, e lui si avvicinava preoccupato per chiederle: – Tutto bene, amore mio? Cosa c’è che non va? – mentre i bambini nella stanza vicina continuavano a frignare e a chiamare senza che nessuno rispondesse, era perché quel nuovo amore la assorbiva totalmente e la faceva fantasticare, non per altro.
– Sono cose che non puoi capire. – gli rispondeva a volte, quando le girava, e portava gli occhi altrove, oltre la finestra, verso i boschi che si agitavano di fuori. E se casomai succedeva che si soffermasse su di lui, lo seguisse anche per poco con lo sguardo mentre si industriava nelle cose di casa, lo faceva come quando si è preso coscienza di un errore o che il guaio è fatto, tentennando il capo, come per una sventura alla quale non si può rimediare.
E dire che dopo i primi segnali, il primo sbandamento, ci aveva anche provato, aveva reagito. Si era rimboccato le maniche all’idea di salvare il salvabile e di rimettere insieme i cocci prima che si rompessero del tutto. Aveva cercato di renderla meno occupata, di sgravarla di pesi e di incombenze, pulendo lui il bagno, la cucina, facendo la spesa quando tornava da lavoro, e mostrandosi allegro, ma sfoggiando all’occasione un sorriso così ebete in faccia, perché immotivato, che tradiva invece un’ansia e una fragilità pronte a mostrarsi, a cedere al primo colpo, come quei castelli di carta molto alti a cui basta un soffio per farli rovinare. E questo sempre con la speranza neanche troppo nascosta che lei si ravvedesse, che mutasse opinione.
Tant’è che a volte: – Vuoi dell’acqua, o un caffè? – aveva tentato di chiederle, oppure: – Vuoi che prepari io la cena? – con l’intenzione di farla riposare e sentire importante, volendola coccolare. – E il secondo? vuoi che lo prepari? – ma per ricevere in quei casi da lei, che non sopportava il vederselo attorno in modo così pressante, solo rispostacce, o dei sospiri di sufficienza, con un esito davvero inglorioso.
– Magari è una cosa temporanea, un momento di incertezza, e fra un po’ le passa, – gli aveva ripetuto Andrea fino alla noia, nelle tante sedute al bar di quel periodo, a due passi da casa, – ci ripensa! – ma lui, sconfitto, si era limitato a stralunare gli occhi.
Era successo così che, in quei mesi, tutti i santi giorni, l’aveva aspettata per ore alla finestra del soggiorno fino a quando imbruniva, nell’attesa che tornasse da lavoro per prenderla in un attimo di pausa e per parlare, per cercar di capire, di conciliare, di farsela di nuovo vicina. L’aveva cercata quindi ancor di più, coperta di attenzioni, facendosi trovare con dei piccoli regali, invitandola a cenare fuori, fino a risentirsene quando lei invece lo ignorava.
Ed eccolo alternare allora ai tentativi di dialogo i momenti di indecisione, di pentimento, di stizza feroce per non aver saputo tenersi buona la moglie, gli scoppi d’ira e di risentimento per quella donna ingrata che di punto in bianco, dopo sei anni, cambiava bandiera al calar del vento e non voleva più saperne di ascoltare, di capire, di comprendere la situazione per tornare al suo posto.
– Cosa vuoi che facciamo, quindi? – aveva provato a dirle ancora. – Ci lasciamo? Ci separiamo? – proponendo la cosa con una punta di ironia, come se fosse inconcepibile, impensabile di per sé.
– E vattene se vuoi! cosa aspetti? Sai dov’è la porta. La vedi? – era la risposta.
E a quel punto si era sentito solo di tacere.
Ma che fare dunque con due figli, con due pargoli da crescere ed educare, e con tutti quei sogni di amore e di tranquillità custoditi per anni e che adesso all’improvviso svanivano solo perché lei aveva deciso di farsela con un altro, perché di lui a casa non era più contenta? Che rabbia, gli faceva! Che roba! Questa nuova situazione gli era insopportabile! In quei momenti non sapeva neanche lui cosa provasse, avrebbe potuto far pazzie!, si diceva. Ma che fare alla fine senza Sara, cosa fare senza di lei?, avrebbe davvero lasciato che lei un giorno fosse andata via, che lo abbandonasse? E i piccoli?… Già, i piccoli!… Lui, a pensarci, si sentiva perso. L’idea che, a causa della separazione, li avrebbe rivisti solo un giorno ogni tanto lo terrorizzava!
E nel guardare di nuovo i bambini: – Ecco, come siamo rimasti! – si disse, con un misto di rabbia e di incredulità, pensando, impaziente, alla telefonata che di lì a poco sarebbe arrivata.
Paola giocava ora alla parrucchiera: – I capelli corti e lunghi! – diceva di volere, e dopo aver pettinato e colorato la testa di una bambola si disponeva a lasciare i pettini sul tappeto. Peccato che poi bisognasse raccogliere, pensò il padre, senza però fare parola.
Erano tutti e tre nel soggiorno dal pomeriggio, i bambini intenti a litigare e a contendersi i giochi, e lui che si affannava con loro tra una cosa e l’altra.
– Tra poco devo cucinare, Paola. Devo alzarmi. – disse.
– No! Resta qua! Dobbiamo giocare.
E il padre, per un attimo, esitò. Al che, annoiato da quella situazione, si alzò e accese la tv, reggendo il piccolo in braccio. E la cosa funzionò.
Due, tre minuti, e i figli si incantarono, e lui con loro. Sullo schermo, munita di ali, la principessa Polly visitava una fabbrica di giocattoli e girava tra i reparti, per giungere infine in quello della pittura dove Babbo Natale le mostrava i macchinari. Gli elfi dipingevano i capelli delle bambole, con un colpo di pennello, poi queste passavano all’asciugatoio e all’impacchettamento, pronte per la spedizione. Arrivava quindi la fata a colorar di rosso gli abiti di tutte. Che efficienza, lui pensò.
Si stufarono. Sicché Paola propose di giocare a io vedo. Io vedo qualcosa di rosa, la maglia di Paola, il fazzoletto della bambola, ma durò poco, perché si buttò di nuovo sul fratello, che iniziò a frignare con l’intenzione di salire in braccio, e il padre cominciò a ricoprirla di baci, accarezzandola sulla testa.
– Papà! io mi sto annoiando! – fece quindi seccata, le braccia incrociate e il viso imbronciato. – Papà!
– Vediamo cosa possiamo fare. – disse il padre, che tirò a sé una borsetta colma di oggetti ch’era sul tappeto.
Venne allora il momento di giocare col memory, di accoppiare le madri e i figli di varie specie animali nel modo corretto, capra con capra, panda con panda.
– Però come dice la mamma! – intimò Paola, che intendeva separare dapprima i due gruppi, in modo da ricomporre le coppie successivamente. Al che, noncurante del fratello che aveva in grembo, gli si sedette addosso e lui le fece posto.
– Si vede che ho giocato con mamma?
– Sì, si vede, amore mio. Sei brava. – e l’accarezzò di nuovo. Poi continuò a scegliere le carte una dopo l’altra, giocando da sola, sollevandole da terra.
– E il mio turno? – fece il padre, sorpreso, ma di scoprirne una, per lui, nemmeno l’ombra.
– Aspetta!
La bimba alzò ancora qualche carta, riponendole tutte nel mucchio accanto a sé.
– Quanto fa? – fece il padre, che era riuscito intanto a prendere qualcosa.
– Sei.
– Sei più due…
– Otto!
– Ha vinto papà, allora…
E lei, dopo un attimo d’esitazione: – Facciamo finta che questa volta non vale! – fece con un sorriso.
– Va bene. Rifacciamo.
Al che, come se ne accorse, filò via in bagno con Matteo, per cambiargli il pannolino. Il piccolo alzava le braccia verso il padre, strillava. Non ne voleva sapere di calmarsi. Una volta asciugatolo, cominciò a fare storie perché non gli andava di lavare le mani. Si agitava e non sentiva ragioni. Quando tornarono nel soggiorno c’era un dodò alla tivù che faceva la doccia e Paola rideva.
Questa, nel frattempo, aveva preso a ritagliare. Usava un paio di forbici rosa con le quali ricavava lunghe strisce di carta che poi sminuzzava per farne pasta da calare nelle pentole, o dei cerchi concentrici come chioccioline, che erano la sua passione.
– Papà, prendi l’acqua per le pentoline? – fece la bimba.
– Non è il caso di giocare con l’acqua! Poi ti bagni!
– No! voglio l’acqua! – e scalciò stizzita col piede da seduta, facendo pure un verso.
– Va bene. Ma quando è ora di mangiare non voglio sentire scuse. Hai capito? – le chiese, mentre il più piccolo, che aveva ancora in braccio, guardava il tutto senza parlare.
Lui a Marco ci pensava, quel suo amico che s’era separato, anni fa, e che da quella storia era uscito devastato. Aveva faticato non poco a riprendersi e ad andare avanti, e non solo perché con la separazione gli avevano tolto tutto, la casa, i soldi, financo i figli. Nel suo caso aveva dovuto sopportare, purtroppo, le più grandi cattiverie, oltre a una buona dose di stranezze: aveva avuto a che fare con una donna che scappava in strada con la bambina senza che si potesse sapere dove andasse, e che bisognava poi rincorrere; una tipa che era solita far di tutto per indispettirlo, che non esitava, per esempio, a buttargli via i vestiti di notte mentre lui dormiva, tant’è che al risveglio, l’indomani, non trovava più nulla, e che lo minacciava sempre di buttarsi dal tetto con la figlia. E ogni volta giù a penare, a rimboccarsi le maniche, con la testa sempre a cosa potesse succedere ancora, alla bimba soprattutto, ad ogni nuova occasione, vedendo il tutto precipitare. Era stata una situazione incredibile e difficile da affrontare, e a poco erano servite le preghiere e le buone intenzioni.
– In ogni caso lei avrà la casa e i bambini. – gli aveva detto l’avvocato poco prima della firma dell’accordo, cercando di fargli capire che non c’era nulla da fare. – I figli invece non li perderà, stia tranquillo. Li vedrà tre, quattro volte al mese. – Al che non era riuscito a comprendere, in verità, se stesse facendo dell’ironia o se fosse invece una mera constatazione.
Fatto sta, cosa ancor più tragica, che era finito ad abitare da sua madre, senza più neanche un soldo in tasca.
– Paola, devo alzarmi per fare la pasta, altrimenti questa sera non mangiamo.
– No! Stai qua. – gli disse stizzita. – Dobbiamo giocare!
E il padre esitò ancora, pensando però che la moglie prima o poi avrebbe telefonato per capire se avesse cucinato e lui non aveva fatto nulla.
– Sei stata brava, amore, ma adesso basta…
– No! – disse indispettita, e fece per graffiargli la faccia.
– Paola, devo alzarmi! E metti giù le mani! Ci vuole almeno mezz’ora per preparare e se non mi sbrigo vi viene fame. Non posso farvi mangiare tardi. Poi telefona la mamma e cosa le diciamo? che non abbiamo mangiato? – quindi si alzò lasciando il piccolo seduto a terra, che cominciò a piangere.
– Dai retta a tuo fratello, per favore…
Sara gli aveva detto dov’era la pastina, nel mobile in alto, vicino al frigorifero, assieme al sale e alle altre cose da cucina, ma non la trovava. Cavolo! pensò tra sé. Chissà dov’è? – Mi sa che non ne abbiamo, accidenti! – disse, come riflettendo. – Non la vedo.
– Mamma la trova sempre! – fece la bambina. Poi la trovò anche lui.
Allora prese una pentola a caso e la mise sul fuoco, aspettando che l’acqua bollisse. Dopo qualche minuto aggiunse un po’ di pastina, e cominciò a girare, della pastina corta pronta in sei minuti e una platessa passata in forno a duecento gradi, così gli aveva detto la moglie, e cercò di concentrarsi, mentre per Matteo mise a scaldare del latte a bagnomaria in un pentolino, come aveva visto fare altre volte. Ci mise pure due biscotti, mangia amore mio!, pensò, anche se Sara gli aveva detto di non farlo, tanto adesso non avrebbe potuto vedere.
Chissà quando telefonerà, intanto si chiese. E cercò di sbrigarsi in modo che fosse pronto per quando la moglie avrebbe chiamato.
– Adesso che facciamo? – chiese Paola a gran voce. E poi: – Uffaaa! Mi sto annoiando! Papà perché non giochi? Papà! – e cominciò a tirarlo per un braccio, puntando i talloni, la testa rovesciata all’indietro.
– Aspetta! – e si avvicinò alla figlia malvolentieri.
Ma il piccolo riprese a quel punto a frignare perché voleva la mamma, di nuovo! Lui cercò di consolarlo col dire che sarebbe tornata al più presto, anche se non sapeva quando, cosa che forse sarebbe servita a calmarlo. Era tutto il pomeriggio che frignava e quando cominciava o iniziavano entrambi sudava sette camicie.
– Matteo, la mamma non c’è. Torna domani. – disse Paola tranquilla, – È inutile che piangi! – mentre metteva a terra le pentole, sistemandole per il gioco.
Poi finalmente arrivò la chiamata e lui s’affrettò a rispondere. Sollevò il telefono, ne sentì la voce:
– Ti sei ricordato di passare con i bimbi da mia madre? – e dopo una pausa. – Ma li hai lavati? Hai fatto loro il bagno?
– Lavàti ancora no…
– E cosa aspetti… mio dio! Matteo tra poco si addormenta! È piccolo, dio santo! Sennò non dorme più. Ma hai cucinato almeno? – chiese con apprensione. – Devi prendere la pastina dal mobile a sinistra, ma metti prima un goccio d’olio nell’acqua, sennò si attacca… – disse, con un tono di comando, come fa chi ha a che fare con un tonto e deve per questo accertarsi che vada tutto bene.
– Sì, lo so…
– E non farle mangiare il tonno! non le piace, poi sai che si innervosisce… Ma sei impazzito a farle mangiare la mozzarella? – e dopo un attimo di silenzio, come parlando tra sé: – Ma com’è che devo pensare sempre a tutto io! – la sentì aggiungere dall’altro capo, – mai una regola, mai un aiuto… – e giù un sospiro forte, un singhiozzo, come stesse compiangendo una situazione ormai disperata.
Sicché, l’orecchio al cellulare, lui sentì delle voci, delle auto che passavano vicine miste a un brusio sordo e indistinto, sempre da esterno. Al che avrebbe voluto chiederle: – Tutto bene? – ma più per curiosità, per abitudine, che per altro, ma se ne vergognò subito, sembrandogli la cosa ridicola, e si trattenne, tanto più che lei poco dopo riattaccò.
E allora un miscuglio di rabbia e frustrazione inaudita lo travolse senza dargli scampo, trascinandolo in un istante nel baratro di un’istintiva e momentanea ribellione, del rancore perenne. Che fare? Cosa dire a quel punto? Quanto sarebbe durato quel tormento? Poteva accettare tutto questo? Cercò con gli occhi chiusi di fare un respiro profondo, per calmarsi.
Poi posò lo sguardo sulla figlia: è bionda, è bella e serena, non sospetta nulla, pensò, ha grandi occhi azzurro cenere, le labbra rosse e un carattere vivace.