Con le intense e commoventi pagine del suo nuovo libro (Il tempo di un soffio, Les Flâneurs Editore, 2019), pagine che potrebbero benissimo appartenere a una favola a lieto fine ma anche a una parabola edificante, di quelle che hanno tanto da insegnarci sulla vita e sugli uomini, Donato Di Capua ci trascina nel mezzo di un romanzo di formazione dai toni profondi e appassionati, in cui ad avere la meglio – cosa non scontata viste le premesse – sono i grandi valori che nessuno dovrebbe mai perdere di vista: la fratellanza, l’amore, l’umiltà, la solidarietà, l’amicizia.
Khalil, il protagonista della vicenda, è un giovane direttore d’orchestra che ha immolato la propria vita al demone della musica per esserne alla fine pienamente ripagato, un uomo in grado di incantare il pubblico con la sua grande arte, che guida e fa vibrare gli strumenti con vera maestria, come una divinità imperiosa che decide e che comanda, ma che è stato anche, in tempi non lontani, uno di quei bambini giunti in Italia con un viaggio della speranza a bordo di un gommone, che si è ritrovato solo in mezzo al mare per giorni, sfiorando la morte, e che con l’approdo nel nostro Paese ha però avuto l’opportunità di ricominciare daccapo, di crescere e intraprendere altri percorsi, fino a trovare la sua strada, fino a riscattarsi del tutto.
È un romanzo nel quale la vita di un bambino rifiorisce grazie alla bontà e al coraggio di chi decide di prendersene cura, non rifiutando il dono che Dio gli ha dato ma rimettendosi subito in gioco anche quando le condizioni che si prospettano paiono essere estremamente difficili, una scelta che condurrà i personaggi laddove nessuno mai si sarebbe aspettato e che porterà Khalil a conseguire un traguardo che si rivelerà essere la miglior moneta per ripagare gli sforzi compiuti da tutti, dal ragazzo stesso e da chi gli ha offerto aiuto pur di contrastare i capricci di una sorte che con lui non è stata benevola.
Dalla voce stessa del protagonista apprendiamo quindi, un po’ alla volta, lo stupore nei confronti del mondo nuovo che lo ha adottato, molto diverso dal paese e dalla sua cultura di origine, la felicità immensa di ritrovarsi in un posto finalmente sicuro, lontano da tutte le brutture a cui ha assistito in precedenza, che pur l’hanno temprato visti gli oltraggi che la vita ha voluto purtroppo infliggergli, e la consapevolezza di essere accolto, desiderato, amato davvero, ma anche la certezza di avere avuto l’opportunità inaspettata di arricchirsi interiormente e di provvedere al proprio futuro, di progettarlo in modo da poter vivere dignitosamente, guidato da quello che lui stesso chiama, perché lo sente dentro di sé, “il dono della rinascita“. Si tratta nel suo caso di una vera e propria resurrezione, ma anche, a fronte del pericolo scampato, di una scelta mirata della serenità, di non preoccuparsi delle insidie della quotidianità ma di cercare di vivere al meglio ogni attimo come se fosse un grande dono, “riempiendo i giorni di tutto quello che può gratificare un’esistenza“.
Si succedono allora, uno dietro l’altro, il primo giorno di scuola, con le sue sorprese, i suoi timori, la meraviglia, la conoscenza della maestra e dei compagni, le prime zuffe, la scoperta della musica che ammalia il cuore e abbaglia l’animo, rapisce come un sortilegio (e in cui trova l’abbraccio materno di cui purtroppo non serba ricordo), le prime ribellioni ma anche l’amicizia vera con Marco e Giusy, in un evolversi degli avvenimenti in cui ad avere la meglio saranno spesso la speranza, la fede, l’amore e l’amicizia, ma anche la voglia di riscatto e la riconoscenza verso coloro che hanno voluto regalargli una nuova vita e tanto amore, verso coloro da cui ha imparato a trovare la forza di farsi aiutare, così come di superare la sofferenza per aver perso in mare gli affetti più cari. Laddove infatti si fa evidente, in Khalil, il bisogno di un’elaborazione del lutto, attraverso i continui ricordi che affiorano durante la narrazione, soprattutto quelli relativi al viaggio sul gommone e alla vita condotta in precedenza in Egitto, ad Abu Minqar (“Ma non ero ancora riuscito a sfrattare tutti i demoni che affollavano la mia mente, Ero passato per l’inferno e quel tanfo era ancora impegnato in qualche recondito Angolo della mia anima.“), questo verrà lenito a poco a poco da un senso di fratellanza universale che pervade l’intera sua esistenza e quella dei suoi amici, un qualcosa che si rivelerà alla lunga meravigliosamente più forte dei pregiudizi e dei limiti delle rispettive culture di appartenenza (“Dio ci aveva appena impastati con il fango della terra e ci aveva soffiato l’alito della vita, eravamo anime viventi che non soffrivano del senso morale inculcato dalla società, non esisteva fra noi nessun senso di malizia né di vergogna. Eravamo bellezza e innocenza, ma la cosa più straordinaria era il senso di libertà che stavamo vivendo.“) e che darà vita, nella piccola cittadina in cui si svolge la vicenda, a una sincera comunione di uomini e donne liberi.
Riteniamo allora di non sbagliare nel vedere in questo romanzo di Di Capua un monito sincero contro tutti i pregiudizi, contro l’ignoranza e la malafede, ma soprattutto un inno alla solidarietà e all’amicizia tra gli uomini, all’amore della vita in tutte le sue forme, ad un mondo, come quello che ci viene proposto, in cui tutti possono avere gli stessi diritti e le stesse opportunità, nonché la possibilità di custodire dei sogni.
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Recensione apparsa su Lankenauta