Ho avuto il piacere di porre qualche domanda ad Alessandro Cortese che con il suo La mafia nello zaino. Il bimbo, il nano e l’assassino, edito da poco da Il ramo e la foglia edizioni, ci propone un romanzo teatrale, nel quale le maschere indossate dai personaggi sono necessarie per condurre una vita normale solo in apparenza ma non possono essere mantenute di fronte allo sguardo ingenuo e sincero di un picciriddu siciliano che si interroga sulla mafia.
Innanzitutto, Alessandro, come e quando nasce questo romanzo?
Nasce il 19 luglio del 1992, quando vidi le televisioni trasmettere tutte le stesse scene, di devastazione e miseria umana, che raccontavano la strage di via d’Amelio. Mi capita ancora, quando racconto ad altri di cosa provai quel pomeriggio caldissimo di luglio, di commuovermi pensando a quanto sangue sia stato versato su terra di Sicilia. La mia terra.
E il sangue versato sulla terra è un’immagine ricorrente anche nel mio romanzo, La mafia nello zaino, perché non potrebbe essere altrimenti: io ci son cresciuto, guardando quel sangue. Ma la consapevolezza di cosa significasse davvero la ebbi il 19 luglio 1992: in quell’occasione capii che la mafia può uccidere chiunque, anche gli eroi. Credo di essere diventato adulto proprio grazie a questa consapevolezza.
Mi vien da chiederti se c’è una qualche componente autobiografica…
Non potrebbe essere diversamente! Io sono nato in Sicilia e ho vissuto intensamente la mia terra fino a 25 anni. L’ho vissuta in bene e l’ho vissuta in male, e non so dirti se più in un verso o nell’altro. Di certo l’ho vissuta tanto. Quindi tutto il mio vissuto è diventato molto di quel tessuto narrativo che riempie il libro. Mi piace dire che non è un romanzo autobiografico, quanto piuttosto un romanzo di fantasia con molti elementi autobiografici… è merito proprio di questi elementi se ne è venuto fuori un libro magico. Hai i presenti i libri magici? Quelli dove i personaggi che interpretano la storia sembrano veri e in carne e ossa e ti accompagnano anche dopo che hai finito di leggere di loro? Ecco, in questo senso è un libro magico e la sua magia credo sia in buona parte dovuta a tutto il mio vissuto in terra di Sicilia.
La vicenda è raccontata attraverso gli occhi del picciriddu, come mai questa scelta narrativa?
L’idea di raccontare un mondo di adulti dal punto di vista di un bambino, di un picciriddu, è venuta naturalmente: io volevo raccontare i miei ricordi di casa, perché ho lasciato la Sicilia a 25 anni e poi, anche se ci torno periodicamente, l’isola non è più stata davvero casa mia. L’unica casa che ho è la Sicilia fatta dei miei ricordi di bambino, quindi ho raccontato quelli quando li vivevo, cioè quando ero un picciriddu che passava i suoi pomeriggi in bicicletta.
Il sottotitolo sembra scelto di proposito per alludere a una fiaba…
Esattamente! Sono contento che tu te ne sia accorto, perché io ho la convinzione che per raccontare qualsiasi cosa basterebbe una fiaba; da sempre i racconti, fiabe e favole e miti, accompagnano il cammino dell’uomo: hanno una forza che permette loro di resistere al passare tempo salvandosi dalla dimenticanza. E poi io volevo che tutto, in qualche modo, tornasse a quel picciriddu protagonista che, in quanto bambino appunto, sceglie in quale forma le sue peripezie estive possano essere raccontate: la fiaba.
La fiaba allude al teatro, poi, e in questo romanzo il teatro è di importanza fondamentale per raccontare la storia… ma del resto, come potrebbe essere diverso? Noi siciliani, specialmente noi narratori siciliani, ci portiamo addosso Pirandello come una seconda pelle. E nulla saremmo senza il teatro.
È un mondo caratterizzato da maschere che non esitano a negare l’esistenza della mafia…
Io sono un narratore siciliano e, come tutti i narratori siciliani, mi porto addosso Pirandello e il suo modo di rappresentare le cose. Senza insistere sulle più famose citazioni pirandelliane relative a maschere e teatro, credo sia sufficiente dire che “tutto teatro è e pure la Sicilia”, una frase che nel mio libro serve a spiegare al picciriddu protagonista che, tutto sommato, quelle figure più o meno ambigue e contraddittorie di cui mi chiedi sono normali, nel vortice di personaggi che si alternano in una recita su un palcoscenico. In tutto il romanzo mi capita di ripetere dell’importanza del teatro o di inserire veri e propri teatrini, a volte fittizi (come quello dell’Opera dei Pupi) e a volte veri (quello tra il padre del picciriddu e il sindaco, dentro al Comune) e altre volte ancora teatrini a metà tra verità e finzione (come quello in finale di libro); non sono solo elementi necessari al proseguo della storia ma, piuttosto, si tratta di simboli: sono simboli della Sicilia, di come si vive in Sicilia, del viaggio del nostro picciriddu e di come quel viaggio significhi la fine della sua infanzia per restituircelo uomo.
Tutto teatro è e pure la Sicilia: Pirandello lo sapeva bene e lo raccontò benissimo… io ho provato a fare lo stesso con il mio romanzo.
La verità però non sfugge agli occhi di un bambino, così come la necessità di non vivere nell’ignoranza…
Il mio picciriddu, che oramai è un po’ il nostro, è l’unico che non porta una maschera: ai bambini non fa caso nessuno, così i bambini possono essere se stessi, dire le cose spontaneamente e con la forza della propria ingenuità, dentro la quale si nasconde la verità su tutte le cose. È stato il primo romanzo che ho scritto con protagonista un bambino e non credo di rifarlo ancora, perché la magia che questo mio piccolo personaggio ha saputo svelarmi, talvolta utilizzando alcuni dei miei ricordi ma spesso facendo di testa propria, credo sia unica e sarei incapace di ritrovarla in un nuovo bambino di un nuovo romanzo. Credo che sia merito proprio della sua determinazione a emergere dall’ignoranza, se al nostro picciriddu è riuscito di raccogliere tanta simpatia nei suoi confronti: lui è un piccolo eroe coraggioso e tutti noi amiamo e ammiriamo i piccoli, gli eroi e pure i coraggiosi.
Le parole pronunciate dalla madre sembrano a volte svelarci una realtà contro la quale nulla si può fare. Non resta che accettare oppure andar via… ma è proprio così?
Non so se sono la persona giusta a cui fare questa domanda, visto che io sono uno di quelli andati via dalla Sicilia. Non solo, sono anche uno di quelli che non ci tornerebbe più, e ti assicuro che lo dico non per rancore verso la mia terra: il rancore verso la Sicilia l’ho esaurito quasi subito, appena andato via dall’isola; lo dico perché, quando si va via, lo si fa con l’idea di trovare altrove cose che non hai trovato a casa tua, cioè in quel luogo in cui sei cresciuto e di cui conosci tutto. Non sono uno che ha mollato subito, eh… ho provato a restare in Sicilia e ho provato a dare un senso agli studi fatti in Sicilia, cercando un lavoro che mi gratificasse; inutile aggiungere che, se sono andato via, evidentemente non c’erano le condizioni per restare. Continuo a tornare in Sicilia, periodicamente, per far visita a mio padre e a mia madre… e ogni volta non vedo alcun cambiamento: direi che è tutto come quando me ne sono andato, ma in molti casi è assai peggio. Quindi non ho rimpianti: questa terra ha fatto un suo percorso mentre io ne facevo un altro lontano da lei e, credo sinceramente, le cose dovevano andare così. Io sono contento, di tutto quanto ho fatto lontano da casa.
Colpisce la grande umanità che caratterizza questi tuoi personaggi…
Quando scrivo le storie che mi fanno l’onore di scegliermi per raccontarle, provo ad ascoltare attentamente tutto ciò che i personaggi mi dicono e, soprattutto, provo ad ascoltare tutto ciò che non mi dicono. Mi figuro i loro gesti e le loro espressioni, li sento formulare pensieri ed emozioni… do loro il meglio di me per provare a fare di loro un ricordo indelebile per i lettori che ci prestano del tempo per leggerci.
Di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e padre Pino Puglisi, ancora oggi, mi capita di raccontare e mi capita di commuovermi… così, magari, l’umanità che tu scorgi in quei personaggi inventati, ma che dicono di loro, è figlia della commozione e dell’immensa stima che io ho per uomini che, diversamente da me, sono rimasti in Sicilia e tanto bene hanno fatto alla Sicilia, morendo in Sicilia per logiche che non appartengono a me, a te, che non appartenevano a loro e che non appartengono a moltissimi siciliani: sono morti per logiche di interesse che di certo riguardano la Sicilia, come sono certo tali logiche si spingano, strisciando, un po’ ovunque in Italia. Non li ha uccisi la mafia ma le mafie e il pensiero mafioso, che è internazionale.
“La verità”… il proposito che guiderà il protagonista alla scoperta del mondo, come pure nella sua crescita interiore…
Mi sono sempre chiesto: non sarebbe meraviglioso vivere in un mondo dove non c’è da mentire praticamente per tutto quanto ci riguarda? A me piacerebbe sapere un sacco di cose: mi piacerebbe sapere chi è il vero mandante degli omicidi di Falcone e Borsellino, ma non solo… mi piacerebbe sapere cosa è successo ad Aldo Moro, a Ustica, durante Mani Pulite. Mi piacerebbe sapere cosa c’è scritto sui contratti secretati che le Istituzioni firmano a mio nome pagando coi miei soldi. Mi piacerebbe sapere, semplicemente, la verità. Eppure sono tutti terrorizzati, dalla verità, e se ci pensi è un paradosso: la verità dovrebbe rassicurare, non spaventare, e se non ti senti rassicurato dalla verità è logico pensare che dalla verità puoi averne un danno. E chi ha dei danni dalla verità? I criminali e i collusi, i traffichini, gli accattoni, i disonesti.
In Sicilia, giù da me, c’è un vecchio detto che recita: “Sutt’u suli non mi scantu i nenti”, che tradotto letteralmente diventa: “Alla luce del sole non ho paura di nulla”. Io credo sinceramente che la verità sia la cosa più bella che ci possa capitare, perché la verità ci rende invincibili e immortali.
La scoperta della mafia segna l’inizio della vita adulta, nella quale è necessario fare una scelta di campo…
Esattamente. Si tratta di scegliere tra la Sicilia e il resto del mondo e, seppure questa scelta vada in parallelo con la scelta tra l’essere un potenziale mafioso o una persona onesta, desidero sottolineare che le due strade non procedono intrecciate l’una all’altra: più di una volta mi è capitato di dire che chi resta in Sicilia ha di certo più attributi di chi va via, perché è molto più difficile restare e fare una vista onesta in Sicilia che fare lo stesso altrove. Quindi, quella scelta che il nostro picciriddu è chiamato a fare, restare in Sicilia e in un certo modo abbracciare la mafia o andar via dalla Sicilia per salvarsi dall’isola, non riguarda in alcun modo tutti i siciliani ma riguarda solo ed esclusivamente questo picciriddu: questa mia storia è la sua storia e non sempre la storia del nostro picciriddu va vista universalmente, cioè come una metafora di ogni siciliano.
Questa tua fiaba diviene allora anche un romanzo di formazione…
Questa mia fiaba è veramente tante cose e, tra le tante cose, è anche un romanzo di formazione. Se proprio devo dirla tutta, io scrivo sempre dei romanzi di formazione: quando scrissi Eden, lo feci con l’idea che il Lucifero protagonista diventasse il Satana che conosciamo passando attraverso l’esperienza del martirio; quando scrissi Polimnia, mi piaceva l’idea di raccontare i diversi popoli della Grecia diventare unico popolo passando attraverso l’esperienza della guerra d’invasione; adesso, con La Mafia nello Zaino, volevo raccontare di un bambino che diventa adulto passando attraverso l’esperienza della mafia.
Nella cornice del romanzo di formazione possono inserirsi tanti elementi diversi, l’importante è poi saper mantenere un certo equilibrio. Così il mio romanzo di formazione su questo nostro picciriddu è un giallo, è un’opera pirandelliana di omaggio al teatro, è una dichiarazione d’amore alla mia Sicilia… ma soprattutto è una fiaba. È la fiaba fatta di ricordi che mi piacerebbe mi si leggesse, quando sarò vecchio e me ne andrò a dormire.
Sembra di intuire un rapporto di odio e amore che tu nutri nei confronti della Sicilia…
Sono molto critico, con le persone che ho intorno e con i posti in cui vivo. Ma diversamente da molti altri, che amano essere critici a priori, io sono così critico con tutto e tutti perché sono estremamente critico nei miei confronti: mi ripeto che potrei fare molto di più e molto meglio, così riesco a restare estremamente produttivo; sono rigido con me stesso e questa cosa mi ha sempre portato beneficio, nel corso della vita.
Fatta questa breve premessa, io credo che la Sicilia, e moltissimi di quelli che la abitano, non siano abbastanza critici. Esiste una radicata cultura dell’ e vabbè, che ci vuoi fare, che non permette di vedere come, ad oggi, anno del Signore 2022, non sia neanche lontanamente possibile pensare che possano esserci città più o meno grandi dove manca l’acqua corrente dentro casa o si accumuli immondizia lungo le strade; peggio, non solo esistono situazioni così indecorose, c’è anche totale assenza da parte di chi dovrebbe garantire decoro urbano e condizioni di vita accettabili per tutti.
Non ho odio per la Sicilia, ci mancherebbe: è casa mia. Ma se la gente iniziasse a smettere di dire e vabbè, che ci vuoi fare, per qualsiasi cosa sbagliata capitata proprio davanti agli occhi, allora, la Sicilia sarebbe il paradiso che tanti vorrebbero (compreso io).
… è un messaggio di speranza che tu consegni al lettore…
La gente non vuol proprio capire che io amo i lieto fine. Mi piace inoltre fregiarmi di un merito, quello di non sbagliare mai i finali dei miei libri… sarà che li scrivo praticamente all’inizio, quando ho ancora un amore purissimo per la storia che sto raccontando e non ho addosso la stanchezza di averla scritta per tanti mesi. Credo che il finale di questo mio La Mafia nello Zaino sia un gran bel finale… che sia bello o no, magari non sono io a doverlo dire, credo sia il finale giusto. Anche perché è molto mio: c’è tutta la mia amarezza per un Paese (stavolta l’Italia e non la Sicilia) che non rispetta più chi lo ha reso famoso nel mondo, cioè chi lo abita.
Eravamo il posto più bello del pianeta e la gente più bella del pianeta… è davvero un peccato guardarci adesso e vederci in balia di una politica inconsistente, di politici da barzelletta e di situazioni al limite del grottesco che sono diventate la normalità.
Ma c’è sempre speranza per una risalita… che poi è il messaggio in chiusura di romanzo.