Da poco giunta in libreria per i tipi de Il ramo e la foglia edizioni, Acrobazie. Storie brevi e brevissime di Alessandro Trasciatti è un’agile, esuberante, raccolta di prose fortemente pervasa da atmosfere assurde e paradossali, al limite del verosimile, frutto delle circonvoluzioni della mente di una voce narrante che attinge materia narrativa dai sogni e dagli incubi, dalle vicende della vita di ogni giorno, senza paura di mostrarsi agli occhi del lettore con le proprie incertezze e fragilità, i desideri irrealizzati e le fantasie illimitate. Con un tono a volte dolente e nostalgico, a volte ironico, a seconda del pezzo, ma sempre con una grande cura formale, l’autore delinea in questo modo, assai efficacemente, il ritratto di un io spesso contraddittorio, a volte involuto, fortemente propenso ad affidarsi alla propria mirabolante immaginazione ma non per questo meno proteso alla ricerca di senso in un mondo fenomenico che difficilmente si lascia decifrare in termini razionali, con le strutture e i paradigmi tradizionali.
In Rifugi, la prima sezione della raccolta, per esempio, la ricerca del proprio “luogo più integro e segreto“, del proprio centro nascosto, del più recondito degli spazi, viene ostacolata da una realtà circostante che vieta in ogni modo l’intimità con l’amata, così come a più ampio raggio ogni forma di contatto autentico ed interpersonale, obbligando invece chi narra alla convivenza con ciò che gli è del tutto estraneo o lontano. Il fatto che questa realtà non corrisponda alle sue attese è allora il motivo per cercare nei rifugi un appiglio, una certezza seppur velleitaria, come anche le tracce di un passato e la testimonianza della propria esistenza: rifugi sono le tasche da cui tirar fuori degli oggetti a cui si legano i ricordi, i letti in cui riuscire a perdersi nei sogni e a dar credito a un immaginario non meno vero e attendibile del reale, rischiando addirittura di perdercisi dentro (“Sono intascato fino alle spalle. Tra poco sparirò completamente. Ogni volta è così, non ce la faccio a controllare il gorgo progressivo dei ricordi.” oppure “Eppure, se ogni giorno mi chinavo sui libri, lo facevo nell’attesa di sentire le palpebre divenire pesanti e l’occhio naufragare tra le righe.“). Rifugi sono le “alcove a quattro ruote“, ma anche i dizionari e le enciclopedie in cui tutto, eccezionalmente, appare sensato, cioè rassicurante, oppure la casa in cui si vive che, qualora sia perfettamente in ordine, si rivela essere l’unico contesto in cui si è davvero possibili. Sono prose in cui la scrittura di un romanzo (o l’idea di dedicarsi a un carteggio epistolare) può apparire una via d’uscita plausibile (l’unica attività che potrebbe “scrollarmi di dosso questa ragnatela di impotenza che mi avvolge sempre più le membra.”), sia nel caso in cui dis-tragga dal non-sense dell’ordinario, sia nel caso in cui impegni il soggetto, sempre più nella condizione di un naufrago in un mare privo di appigli (l’aspirazione a “morire per acqua” come Phlebas il Fenicio riconduce queste brevi prose a un’ispirazione di natura prettamente eliotiana), in un progetto da cui possa emergere la traccia di un senso e possano palesarsi finalmente delle relazioni semantiche (“Da anni medito un romanzo che percorra la storia d’Occidente per vie traverse e la rivolti come una giacca per mostrarne le pieghe riposte, le cuciture invisibili su cui si regge tutto l’indumento.“). È l’esito della ricerca di un io che mira all’individuazione del principio che possa rimettere in ordine il mondo fenomenico, pur sapendo di essere pronto a rifiutare lo stesso qualora apparisse nelle vesti di un sopraffattore (“C’è bisogno di un Dio che riassetti il mondo fenomenico. Ma io, lo sai bene, col mio desiderio ansioso della norma, mi batterò fino all’ultimo perché essa non si imponga.“).
Più breve, ma altrettanto significativa dal punto di vista contenutistico e formale, la sezione Infanzia e prolungamenti d’infanzia che ci regala invece episodi fortemente simbolici in cui possiamo individuare le premesse, i presupposti di una condizione infantile che sembra allungare la propria ombra fino all’età adulta e in cui, a fronte di una non corrispondenza tra l’io e la realtà, affida un ruolo preponderante a un’immaginazione capace di deflagrare partendo dal particolare e che ha il suo esito migliore in Fantabiografia, una prosa in cui magistralmente i confini tra realtà e finzione appaiono così labili da non permettere al lettore di distinguere l’una dall’altra, generando un sorprendente cortocircuito mentale dal forte sapore ironico e straniante.
Casi clinici e onirici è alfine la sezione più cospicua, quella in cui abbonda a piene mani il surreale o, a seconda dei punti di vista, il patologico (i casi citati dal titolo della sezione sono una parodia di quelli freudiani). Il caso onirico e clinico sembra infatti essere in queste pagine la figura, lo strumento più diretto, più sincero, per parlare del mondo odierno, di una realtà colta nella sua complessità che non può essere ricondotta a spiegazioni logico-razionali e verso la quale è opportuno, se non indispensabile, adottare chiavi di lettura alternative. È in queste prose che fa la sua comparsa l’acrobata, il funambolo condannato a stupire, che si esibisce dinanzi al pubblico, in un circo, buttato suo malgrado in una situazione che non ama ma a cui non riesce a sottrarsi (Un caso acrobatico è il testo esemplare che meglio esprime quale sia l’atteggiamento dell’io nei confronti del mondo: “È per dimostrarti il mio inossidabile amore che ogni volta, all’annuale scadenza, vesto i panni dell’acrobata e mi esibisco in quel privato spettacolo circense che conosci bene.“). Sono prose che a volte si ispirano a celebri opere della tradizione figurativa (“Un caso paradisiaco” è in debito col Trittico delle delizie di Bosch, per intenderci, “Un caso asinino” da una famosissima tela di Chagall) che, grazie alla loro grande forza evocativa, gettano maggior luce su una realtà indecifrabile, per non dire enigmatica.
Sembra facile intuire, quindi, in questa perenne condizione di precario equilibrio costitutiva del vivere, già evocata in copertina e che dà l’impressione di permeare poeticamente tutta la raccolta, che per acrobazie, più che un’allusione alle evoluzioni della penna dell’autore, dovremmo intendere gli slanci, gli avvitamenti, i salti carpiati di un io che cerca di rimanere a galla in quel viaggio coraggioso e spericolato e, a quanto pare, senza approdi, che è la vita.