I sei racconti di Falliti. Storie di ordinaria quotidianità, breve silloge di Vito Maselli edita da Les Flaneurs, ci propongono una originale e variegata scelta di casi i cui protagonisti sono personaggi che, giunti a un certo punto del cammino, in un momento particolare della propria vita, ne vengono improvvisamente travolti, e si fermano, si arrendono, sopraffatti da un senso di vuoto e di inutilità che li spinge a interrogarsi sul proprio ruolo e sul proprio destino, senza mai trovar rifugio però in un porto sicuro.
Sono degli uomini e delle donne cosi calati nei ruoli a loro assegnati da non essere in grado di rimettersi in gioco diversamente, di trovare un percorso alternativo, e che dinanzi a un dettaglio, a un incontro oppure a una scoperta o a un qualcosa di insolito che cambia il corso delle cose, vanno a fondo irrimediabilmente (la telefonata che irrompe improvvisa in Nido di vespe, di sicuro il racconto migliore, solido nella struttura e pregno di tensione, ne è l’esempio lampante), senza riuscire ad intravedere in quello che accade neanche un’opportunità, che pure potrebbe salvarli, che invece nel loro caso diviene lo specchio che restituisce l’immagine crudele di identità frammentate, confuse, più che mai in discussione dinanzi a se stesse. Si tratta di un vuoto o di un cortocircuito imprevisto che potrebbe anche essere supplito dall’immaginazione, come in Pagina bianca, il primo racconto, in cui la capacità di astrazione giunge in soccorso di uno scrittore la cui vena creativa è purtroppo inaridita, ma che il più delle volte si rivela un tranello inaspettato che non lascia scampo al malcapitato o che permette una via di fuga solo qualora sia il caso ad intervenire, come in 269, in cui alla tragedia del Bataclàn, a cui pure sembra essere destinato il protagonista Tonino, si sostituisce un altro tragico evento, originando così un epilogo dal sapore agrodolce.
Sono racconti in cui, come dinanzi a un’epifania o a un prodigio indecifrabile, le certezze di una vita svaniscono all’istante, si disfano nell’aria per lasciare i personaggi senza centro, senza più un riferimento, un’ancora o un appiglio che possa in fondo redimerli (si legga ad esempio L’uomo con la cravatta rossa, il racconto più inquietante, dai chiari toni da incubo, in cui appare evidente l’impronta di Stephen King, per intenderci). Sorgono allora i dubbi, prosperano le ambiguità, riaffiorano persino insicurezze ataviche che possono risalire all’infanzia o a un vissuto familiare per anni tenuto nascosto, al riparo dagli occhi degli altri, e la cui emersione non può che mettere a nudo la parte più debole di loro stessi (L’irritante gentiluomo).
Sono personaggi accomunati in fondo da una profonda solitudine, vuoi perché indotta da una routine scialba e insulsa in cui sono immersi fino al collo e da cui non riescono a venire a galla, vuoi perché è dettata da un vissuto pregresso segnato profondamente da eventi sconosciuti di cui Maselli dispensa solo tracce, accrescendo così la suspense, o da una lucida scelta personale, come confessa, assai candidamente, il protagonista Tonino nelle ultime pagine di 269: “L’ultima volta che mi avrebbe davvero ascoltato. Perché… Tonino sono io. Ho scritto perché ho questo veleno dentro che mi corrode e dovevo in qualche modo sputarlo fuori. Non ho nessun amico al bar, non ho nessuno a cui raccontare, parlare o da ci trarre conforto, non ho nessuno a cui telefonare per dirgli che sto bene. La misura della mia solitudine la si capisce dal fatto che tutto questo non interessa a nessuno.“, frasi che ben esprimono la mancanza assoluta della presenza dell’altro, di un qualsiasi interlocutore con il quale potrebbero articolare un discorso, approfondire un’analisi che li aiuti a vedere con più indulgenza, magari meglio, la propria condizione e quella del mondo.
È una raccolta che non disdegna affatto il colpo di scena, il coup de théâtre che interviene a mutare la direzione, come pure la lettura, degli eventi, che quando meno lo si aspetta ci sorprendono, ci disarmano, ci sovrastano. La realtà in questi casi sembra non presentarsi mai come un qualcosa di facilmente decifrabile, per lo meno non a prima vista. Le cose non sono mai quelle che sono, pare dirci Maselli, possono invece essere tutt’altro, cosa che equivale ad ammettere, per usare le parole del narratore in 269, con una leggera inquietudine: “la Verità non appartiene a noi miseri esseri umani, e io non sono certo nostro Signore, sono solo un povero cristo.“
Recensione apparsa su Lankenauta.
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