Torna in questi giorni disponibile, per i tipi di Cliquot, con la prefazione di Chiara Mattioni e la postfazione di Gianfranco Franchi, Il richiamo di Alma di Stelio Mattioni (l’edizione Adelphi è del 1980), autore forse poco conosciuto e ancora poco letto ma che è stato uno dei nomi di rilievo nel canone della letteratura fantastica del Novecento italiano (laddove per fantastica intendiamo, come precisa la figlia Chiara, “la scrittura di storie che narrano fatti e circostanze verisimili, con premesse ordinarie e coerenti, in cui all’improvviso irrompe un fatto imprevisto e sconcertante che spariglia le carte“), molto apprezzato da Carlo Bo, da Barberi Squarotti, da Calvino, che di lui scriveva “ha un mondo fantastico proprio e di grande forza“, e da Bobi Bazlen, dapprima suo editore e poi amico fraterno.
Con toni fortemente onirici ed evocativi, la narrazione ruota attorno alla figura di Alma, donna inafferrabile e sfuggente, portatrice di un richiamo dal significato recondito e misterioso, che come una fenice, dalla prima folgorante comparsa sulla balaustrata di una grande scala di pietra (“Quello che mi colpì fu una figura bianca che scopersi subito dopo, e che non solo era più bianca di ogni altra cosa che potessi scorgere d’intorno, ma inoltre circonfusa dello stesso colore del cielo, e soprattutto viva e vicinissima, nonostante la distanza.“), appare e riappare nel corso della vita del narratore a più riprese (“La incontrai in via Capitolina, quando meno me l’aspettavo, non dico quando meno pensavo a lei.” (…) “Infatti una mattina, da lassù, vidi finalmente qualcuno in quel giardino, ed era lei. Non ebbi un attimo di esitazione a riconoscerla.“), destando di volta in volta in lui meraviglia, curiosità, fantasie suggestive, sete di conoscenza, e tanti interrogativi che si agitano nel suo animo e che alimentano il fuoco incessante di una ricerca ineludibile ed iniziatica.
Alma è infatti colei che spinge il giovane protagonista in giro per la città, a conoscerla in ogni suo dettaglio, fino ad individuare i confini e le coordinate di una geografia interiore che, tra il perdersi e il ritrovarsi, lo condurranno lungo un percorso inevitabile, a una crescita personale di cui lo stesso Mattioni così parlava: “Più che di un’educazione sentimentale, si tratta di una ricerca di sé stesso, attraverso un itinerario molto emblematico che, per il protagonista, risulta, fino alla fine, abbastanza indecifrabile.”. L’atteggiamento messo in campo è dapprima duplice: vi è nel narratore il desiderio di conoscere questa donna, un tentativo che prende corpo soprattutto nella mente e nell’immaginazione, ma vi è anche il timore di cedere al desiderio stesso, come se vi fosse in lui la paura di aderire completamente alla vita, come se il proprio ruolo fosse quello di rimanere spettatore, di non varcare mai la soglia che possa condurlo appieno nella vita adulta. Solo il libro, la narrazione, gli permetterà di ricomporre i pezzi e di allineare sotto una nuova e più profonda luce immagini, avvertimenti e sensazioni, e di riconciliarsi con la figura eterea ed enigmatica della donna, dal significato molteplice e per questo oscuro.
Ma chi è Alma, dunque? Qual è la sua vera natura? Le risposte sono tante. È la bellezza abbagliante in cui s’incarna il bello ideale, o l’immagine sfuggente di quell’ineffabile che è la vita “altra”, autentica, quella che inseguiamo durante la vita ordinaria e che è fonte di desideri, fantasie e illusioni plurime, è al tempo stesso il motore che ci spinge ad andare avanti, la messaggera divina o la musa d’artista, il nume tutelare intimamente legato al destino del protagonista, ma anche la ricerca dell’anima dell’artista che non giunge a compimento proprio perché è incapace di perdersi, o forse è addirittura l’essenza della città di Trieste (come ebbe a dire Mattioni al direttore di una rivista: «Alma sarebbe la città, e non ti dico altro, basta il nome che le ho dato, il resto dovresti leggerlo»).
Nulla vieterebbe infatti di vedere in Alma l’anima della città, così ampiamente descritta, percorsa, apprezzata nella sua bellezza (“Di fronte si vedevano le due rampe che portano alla via Capitolina, fiancheggiate da abeti, più in alto la fontana a obelisco, a destra le larghe balaustrate di pietra e i pianerottoli della Scala, fra il tratto di via del Monte che piega bruscamente verso il basso e l’altro che s’inerpica dritto verso la chiesa dei frati di Montuzza. Ma, ciò che è più importante, si vedevano, per un arco di novanta gradi, i tetti e le cupole di una buona parte della città, i suoi colli glabri, la cava bianca del Monte Spaccato, il cocuzzolo di Chiadino, e in fondo il mare azzurrissimo, contenuto dal braccio destro del golfo eppure illimitato.“), con le sue strade e le sue piazze, i giardini e le case, le porte chiuse dietro le quali si cela il mistero, che diviene in queste pagine una città trasfigurata e surreale.
Ricorre in questo caso un tratto peculiare della scrittura di Mattioni, comune ad altre opere dello scrittore triestino, qui acuito dall’uso di una lingua nitida, precisa, forbita, il fatto cioè di attingere la materia narrativa del romanzo dalla realtà che lo circonda, descritta sempre con una minuzia e una cura del dettaglio che non fa che accentuare incredibilmente la portata dell’elemento straniante. Non a caso, nel recensire questo libro nel 1980, Geno Pampaloni parlava proprio di “lavorio simbolico solidamente fondato sull’empirismo” e di “naturale sapienza nel passare dal piano realistico a quello fantastico“, come ci ricorda Gianfranco Franchi nella postfazione. Carlo Bo, sul Corriere della Sera in un articolo del 27 aprile 1980, aggiungeva: “è proprio la normalità del racconto a rendere più vivo il tema spirituale. Una prova di grande equilibrio retorico quale appunto il Mattioni deve aver pensato di inseguire sulla traccia della grande letteratura del secolo scorso“.
Con la sua voce lieve e avvolgente, Mattioni ci ha lasciato dunque un romanzo che si interroga sul potere dirompente dell’immaginario e del simbolico, dell’insolito e dell’anomalo, capaci di sconvolgere del tutto la logica consueta di una realtà unidimensionale e stereotipata e di aprire mondi “altri”, onirici e possibili, con i quali però è sempre utile confrontarsi, fosse anche per scoprire nuove chiavi di lettura e nuovi, più profondi significati, che esulano dall’ordinario, ma che possono aiutarci meglio a comprendere noi stessi.
Recensione apparsa su Lankenauta.