Nata dalla volontà di Dots Edizioni di riunire alcuni pezzi apparsi sul Blog struggente di un formidabile genio, il diario di bordo di un giovane millennial che si destreggia fra relazioni, precariato e microdrammi quotidiani, La legge di frustrazione universale di Renato Nicassio è una raccolta di racconti, caratterizzata da una vena spiccatamente ironica, che mira a disegnare i tracciati, i percorsi di vita di un odierno trenta/quarantenne, con lo scopo di delineare “i tratti di un’identità collettiva condivisa, quella della generazione dei nati negli anni ’80“.
Grande spazio nelle pagine è riservato al ruolo dei social, ormai onnipresenti nella nostra vita, e ai sintomi di quella che è una vera dipendenza, di cui l’autore mette in luce molti aspetti: il discutibile storytelling quotidiano, la litigiosità frequente, la mancanza di contenuti, il pressappochismo e la facilità nei giudizi, la condivisione compulsiva, il dover “esserci” a tutti i costi e il sentirsi in dovere di commentare anche quando non si sa nulla dell’argomento, solo per citarne alcuni. Si tratta di ruolo invasivo, ingombrante, a volte alienante, sottilmente violento, capace di influenzare enormemente la nostra mentalità e di indurre in noi atteggiamenti controversi, come possono esserlo l’esigenza di esporre tutto del proprio vissuto rendendo così evanescente il confine tra pubblico e privato, o il bisogno di esibire apertamente il proprio dolore (“Io ho sofferto, io sto soffrendo, e perché sto soffrendo sono da ammirare. Guardatemi, brutti stronzi, guardatemi. Provo dolore: sono da ammirare. Vi sto dicendo una cosa seria in mezzo al mare delle vostre cazzate: sono da ammirare. Vi sto ricordando della morte, vi sto mostrando che io la conosco, la morte: sono da ammirare. Sono una vittima e perciò ora datemi affetto e rispetto. Ditemi che vi dispiace per me, per lui o lei era orgoglioso di me, che domani andrà meglio e che, in ogni caso, sono pieno di amici e di gente che mi vuole bene. Ditemelo.“). Nicassio ce ne parla ricorrendo a una grande ironia, capace di far detonare le contraddizioni e le possibili incongruenze di questo mondo (“Il timore che fosse successo qualcosa di brutto ai miei amici, e soprattutto che stesse per succedere qualcosa di brutto a me, mi spinse a compiere una mossa che nessuno ormai faceva più da anni: Organizzare un’uscita nel mondo reale con degli esseri umani adulti.“), toccando in alcuni casi vette iperboliche, come quando ci narra della necessità di un gruppo di amici di incontrarsi dal vivo per discutere del fatto che non comunicano più online.
L’intenzione più o meno palese è quella di calcare la mano nella resa narrativa di alcune situazioni affinché sembrino sul punto di esplodere, di frangersi in mille pezzi, e di rivelare in questo modo la loro natura aberrante, tanto più se il lettore tiene a mente che gli episodi proposti sono reali. Le storie esposte si caricano così di elementi paradossali, grotteschi, per alcuni versi potrebbero apparire assurde, se questa inquietante assurdità non fosse divenuta col tempo la normalità a cui ci siamo assuefatti.
Dai dialoghi presenti in grande quantità – probabilmente lo strumento più idoneo per cogliere in presa diretta la vita dei tanti personaggi – emerge con disinvoltura, dietro le frasi fatte che gli interlocutori si rimpallano come vuoti automi, il disagio quotidiano di una generazione che è costretta a fare i conti con la precarietà, con la mancanza di soldi, con una instabilità della sfera affettiva e relazionale che sembra essere divenuta costitutiva della loro vita (a cui concorre in molti casi il fatto di ritrovarsi a gestire quello che l’autore chiama il “vivere fra”, condizione oggi abbastanza consueta, cfr. “La nostra unica particolarità è che ci siamo trovati a vivere in un periodo storico in cui una serie di elementi economici, tecnologici e culturali ha fatto sì che il costante andirivieni tra due o più posti sia non soltanto possibile ma, a volte, anche inevitabile.“), un disagio che pare acuirsi inevitabilmente quando gli attori sulla scena si ostinano a leggere il mondo con lenti inadeguate, sulla base di modelli desueti, che poco possono dirci dell’oggi e tanto meno aiutarci a comprenderlo. Ciò che emerge, assieme al fatto di non saper più comunicare, di aver rinunciato ad ascoltare, a comprendere, a dialogare realmente, nella sostanza di non possedere e tanto meno conoscere gli elementi essenziali per una comunicazione autentica, è la consapevolezza nutrita da questi giovani adulti di non essere affatto adeguati, al passo coi tempi, di sentirsi fuori luogo, poiché il mondo che li circonda è cambiato, e certo non a loro favore, e di non riuscire ad alleviare in alcun modo il rancore verso una società che non ravvisano come propria, principalmente perché non li riconosce, non li valorizza (“Ci sono momenti in cui mi prende lo stomaco e me lo torce. Altri in cui afferra il petto e me lo stringe. Altri in cui d’infila nel cervello e me lo prende a calci.“).
Emerge dunque, in modo netto, un ritratto veritiero, senza fronzoli, dei trenta/quarantenni d’oggi: giovani sovraistruiti, sottoimpiegati, a volte ingenui ed incredibilmente immaturi, quasi sempre privi di certezze e di punti di riferimento, smarriti irrimediabilmente tra le assurdità e le contraddizioni della vita d’ogni giorno.