Un Conrad insolito, di cui non mi era capitato di leggere prima, in questo saggio di Richard Ambrosini, che fa luce su molti aspetti delle sue opere e delle sue tecniche narrative.
“Vorrei tanto che tutte quelle mie navi fossero messe a riposo, ma temo che, quando gli americani se ne impadroniranno, non conosceranno mai, mai, riposo.“
R. Ambrosini, Le storie di Conrad. Biografia intellettuale di un romanziere, Carocci, 2019
Non si sbaglierebbe di certo, a lettura ultimata, a voler riconoscere in Richard Ambrosini uno dei maggiori esperti contemporanei della vita e dell’opera di Conrad, e questo non solo per avergli dedicato negli anni dei saggi significativi o per averne curato la traduzione delle opere. Basta infatti sfogliare alcune pagine di questo suo nuovo contributo (Le storie di Conrad, biografia intellettuale di un romanziere, Carocci, 2019, pp. 339), come quelle dedicate a Lord Jim o a Tifone, solo per citarne alcune, per essere colpiti subito, piacevolmente, dalla grande ricchezza di informazioni, di aneddoti circa le vicende personali e la redazione dei romanzi, dalla dovizia di riferimenti puntuali di carattere intra e intertestuali, e dalle acute osservazioni proposte circa i contesti geopolitici a cui la letteratura del nostro ha sempre guardato, per designarlo come uno degli studi più validi e accurati sul mondo conradiano.
L’intento che ne è alla base è quello di descriverci a un tempo il percorso dell’uomo e del romanziere, partendo dall’infanzia e dai primi viaggi della giovinezza, per giungere agli anni dei romanzi e dei racconti, fino alla maturità, della quale apprendiamo anche di un Conrad stanco “di quell’infernale strascico di navi e di quell’ossessione per la mia vita marinaresca che ha altrettanto a che vedere con la mia esistenza letteraria, con la mia qualità di scrittore“, amareggiato cioè dal fatto che la qualità della sua scrittura potesse essere oscurata dal materiale da lui proposto (“Vorrei tanto che tutte quelle mie navi fossero messe a riposo” ebbe a scrivere a Richard Curle, che gli proponeva uno studio generale sulla sua opera), aspetto quest’ultimo che contravviene non poco alla sua immagine più vulgata e stereotipata di “scrittore-marinaio”, quella del giovane capitano di origini polacche impegnato in tante imprese di mare che a un certo punto vi rinuncia per impugnare la penna e ricordare, che pure non era dispiaciuta a molti critici e ai suoi editori.
Ne esce fuori, per riprendere le parole dello stesso autore, il valido affresco di “un maestro orchestratore di punti di vista e salti temporali, un manovratore di narratori ironici intenti a demolire ogni ideologia incontrata sul loro cammino“, la cui la riflessione teorica sull’arte del romanzo ha sempre accompagnato la redazione delle proprie opere, come testimoniano i tanti elementi paratestuali che Ambrosini interpella e richiama con precisione nelle sue pagine.
Si delinea così la parabola di uno scrittore che ricerca le forme più varie, le più adatte a narrare le proprie storie, che negli anni di gioventù ama scrivere moltiplicando i punti di vista, come ne La follia di Almayer (metodo oltremodo valido per mettere in discussione, relativizzare le certezze ideologiche e politiche che giustificavano il colonialismo britannico e occidentale in genere), che approda all’uso del narratore collettivo nel Negro del Narcissus, avanzato proprio quando andavano crescendo le pressioni del nascente sindacalismo britannico; che utilizza il “metodo” inventato con Karain. Un ricordo dell’orchestrazione di una pluralità di narrazioni distanti tra loro nel tempo, nello spazio e per cultura, attraverso l’uso del racconto nel racconto (poi applicato in Cuore di tenebra e in Lord Jim); che ricorre all’impiego del capitano-rimemoratore (alias Marlow), senza dimenticare quello che lui definisce il “metodo dell’episodio finale”, cioè l’idea che il lettore dovesse aspettare le ultime pagine dell’opera per cogliere retroattivamente significato di una storia (come illustrato emblematicamente in Cuore di tenebra); o quello, prendendo a prestito dall’odierno linguaggio cinematografico, del “montaggio alternato”, in cui il romanziere impiega salti spaziali e temporali (Tifone); e che, non pago, nella stagione dei romanzi occidentali iniziata con Nostromo (il cui pattern narrativo si ripeterà in L’agente segreto come anche in Sotto gli occhi dell’occidente) sposterà sempre più al centro delle proprie opere le figure femminili (“furono le donne a portare l’autore a vivere una seconda, straordinaria, stagione creativa“, assieme all’uso di una voce ironica), per concludere infine con “un’arte letteraria di immaginazione che si basa fondamentalmente sul movimento scenico, come il cinema” messa all’opera in Vittoria (primo romanzo, tra l’altro, di cui Conrad abbia venduto i diritti cinematografici), e il tutto sempre legando a filo doppio gli avvenimenti delle sue storie ai grandi giochi geopolitici, ampiamente illustrati da Ambrosini.
Ne risulta quindi un saggio notevole, che restituisce alle opere di Conrad il loro valore, che rende giustizia a uno scrittore che fu definito di volta in volta, in modo errato e superficiale, “scrittore di mare, dei tropici, scrittore descrittivo, romantico – ed anche realista“, quando in realtà mirò sempre a ricercare una nuova forma del romanzo, a differenza di certi suoi contemporanei, un libro da cui negli studi conradiani, insomma, in futuro, non si potrà prescindere.
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La presente recensione è apparsa su Lankenauta: letteratura e altri mondi