L’isola di Brendano

  Primo titolo della collana Opere di Carlo Sgorlon. Inediti, saggi e studi con la quale Mimesis si propone di offrire ai lettori la pubblicazione di tutti gli inediti dello scrittore friulano scomparso poco più di un decennio fa, L’isola di Brendano è un romanzo dalla inconfondibile vena esemplare e dai forti elementi simbolici, che ci parla di un ritorno, di un nostos in piena regola.

Protagonista della vicenda è infatti un architetto di origini irlandesi, Brendano Mac Finnegan, che lascia Baltimora, sua patria d’adozione, per stabilirsi in una piccola cittadina del Friuli dove ha trascorso l’infanzia e presso la quale ha accettato di eseguire i lavori di ristrutturazione e di rinforzo degli edifici pericolanti colpiti da un recente terremoto. È una scelta cruciale, dettata all’apparenza da motivi di stretta convenienza, che sottende però, in modo chiaro, il desiderio di Brendano di ricongiungersi al suo passato, così come di ritrovare nelle cose e nei luoghi, nei ricordi della gente, le proprie radici e la vita dei propri genitori, ma soprattutto l’intenzione di rifondare al contempo una nuova comunità, nuova nei principi, nel paese e nella Casa del Baschiro, presso la quale confluiscono persone di varia provenienza e dal passato piuttosto travagliato. Si evidenzia cioè, nelle azioni del protagonista, la volontà di ricostruire un nucleo familiare, – qui inteso come adempimento di un principio naturale, non privo di sue leggi fondamentali, – che è anche la volontà di pervenire a un mondo idilliaco, nel quale ricomporre ciò che è stato frantumato, che poi è la missione da lui svolta nella piccola cittadina friulana che gli affida il compito di restaurare le case rovinate dal sisma, cittadina che Brendano rimette in sesto un po’ alla volta, pezzo dopo pezzo, insufflandole con la sua partecipazione attiva un nuovo spirito vitale. (“Più intensamente che in passato sentiva di dover sanare le ferite nascoste e palesi che il territorio aveva provocate.“). La Casa del Baschiro diviene allora il luogo in cui convergono i destini di coloro che devono elaborare e sanare, anche mentalmente, le ferite e le violenze che la vita o gli uomini hanno inferto loro (esemplare in questo caso è la vicenda di Fatma) e che possono curare se stessi e ristabilirsi solo nella condivisione di un quotidiano fondato su altri valori (“La vita nella casa di Brendano e nella piccola città era per lei una sorta di clinica dove le sue ferite venivano sanandosi, molto molto lentamente.“), che non sono quelli della meschinità, del profitto ad ogni costo, dell’egoismo stupido della gente, ma sono i principi della solidarietà e dell’amore per il prossimo, per la bellezza e i misteri dell’universo su cui tanto si interrogano i personaggi, e che sono poi i principi professati nei fatti da Brendano.

Non meno importanti appaiono gli altri temi evocati nel corso delle pagine, strettamente legati a quello del ritorno.

Ricorre infatti, a piene mani, una grande attenzione per l’uomo e per il mondo spirituale, per l’enigma della vita e della morte e per il mistero dell’Essere, che non si spiegano in alcun modo se non in relazione con il ruolo svolto dall’uomo in questa realtà, tutti argomenti che Brendano e Amos Venchiarutti affrontano spesso e senza pregiudizi (e ben sintetizzati dal dipinto di Gauguin che Brendano appende in casa, Chi siamo noi? Da dove veniamo? Dove andiamo?, riportato anche sulla copertina del romanzo), sia in un ottica cosmologica che religiosa, di una religione intesa però nel senso più ampio del termine, non solo come semplice adesione al cristianesimo ma come sentimento di appartenenza ad un che di panico, regolato dalle energie segrete dell’Universo.

Si tratta di un discorso da cui non va disgiunto il gusto dello scrittore per l’arcaico, per i valori e per le tradizioni del mondo contadino, a cui si accompagnano di frequente analisi acute delle trasformazioni economico-sociali che lo percorrono e che sembrano investire inevitabilmente anche la vallata friulana in cui si svolge la vicenda, poiché questo affondare nelle radici, nella cultura e nelle usanze popolari da parte di Brendano è essenzialmente “una delle forme per cui sentiva di appartenere (…) all’Essere“, se non la più immediata, la più diretta per attingervi. Le narrazioni popolari, i miti e le leggende, il folklore tanto cercato e indagato dal protagonista (“In lui, ogni volta che veniva a contatto con manifestazioni di folclore, si rinnovava quella sensazione, che proveniva da chissà quali archetipi arcaici, che dormivano sonni leggeri dentro di lui. (…) Il folclore era magico, aveva il sapore di tempi antichissimi, anzi era come impregnato nel mistero stesso del tempo.“) sono in pratica ciò che rivela l’essenza di una comunità e che le dà un’identità, fatta spesso di valori condivisi, di solidarietà, come quella dimostrata dai contadini dei villaggi nei confronti di Jole che non può allattare il suo bambino, o di affetto, come quello delle giovani amiche che le si stringono attorno, ma anche ciò che mette subito in contatto Brendano con l’arcano, con il profondo mistero dell’Essere di cui avverte la presenza.

Altrettanto meritevole, inoltre, è l’attenzione riservata da Sgorlon ai temi ecologici che, come ci ricordano Franco Fabbro e Marco D’Agostini nella Prefazione, tanto lo hanno appassionato nell’ultima parte della sua produzione (“– Rifiuti l’abbondanza? – Non è questo. È che non ce la potremo concedere a lungo. Pian piano dovremo tornare alla parsimonia di un tempo, perché l’energia le materie prime diminuiscono.“). È viva infatti l’indignazione per una Natura perennemente minacciata e in pericolo, sulla quale si accaniscono le azioni nefaste dell’uomo, che la fanno apparire ormai come un povero malato che ha contratto “una febbre”, così come ineluttabile appare in più punti del romanzo la necessità di regolare lo sviluppo umano, di gestire una ricchezza limitata che vien meno sotto i colpi del progresso (nel romanzo i pericoli vengono dalla nuova autostrada, foriera di morte). Non mancano, a supporto di tale causa, giudizi netti e sferzanti sull’uomo contemporaneo (“I libri sulle guerre, fossero antiche o moderne, erano per lui continue riprove che gli uomini erano dei selvaggi, incapaci e di vivere in armonia.“) e riflessioni amare su un futuro che si presenta funesto, se non catastrofico (“Il futuro aveva un’aria, per molti versi, meno rassicurante del passato. Tutte le cose parevano diventate più precarie e provvisorie.”) ma che può essere scongiurato proprio con la riproposizione delle forme e degli istituti della tradizione tanto cari allo scrittore (“Poiché i tempi sembravano scivolare verso forme sempre più confuse e stridenti, tutto ciò che ribadiva la tradizione e la normalità aveva un carattere rasserenante e liberatorio.“).

Alla luce di tutto ciò, sono tanti, dunque, gli elementi che farebbero pensare alla presenza di una affinità tra l’approdo di Brendano in questa valle del Friuli alla ricerca di un suo mondo ideale e il viaggio descritto nel poemetto irlandese evocato all’inizio della vicenda, in cui il santo omonimo del VI secolo, San Brendano, come il protagonista del romanzo, vaga alla ricerca di un’isola felice fino a riuscire a trovarla (“quando San Brendano, nel poemetto irlandese, trovava l’isola felice, scendeva dalla nave e si metteva a esplorarla.“), una sua isola felice, dove sembra rinvenire finalmente la pace.

Recensione apparsa su Lankenauta

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