Tra gli interessanti titoli della esordiente Dots Edizioni, questo “Siamo ancora qui. Il passato e il presente dei nativi americani” di Danielle SeeWalker (con gli approfondimenti di Lorena Carbonara e le foto di Carlotta Cardana) ci propone un agile, significativo reportage di viaggio condotto dall’autrice presso le popolazioni native del Canada e degli Stati Uniti d’America. Il testo, come ci dice la stessa Carbonara nella Prefazione, prende avvio dalla ferma convinzione che non ci si possa più permettere “di non raccontare la storia della depredazione delle culture native e le storie di chi ha dovuto subire una politica governativa forgiata sull’assunto: «Kill the Indian, save the man», uccidi l’indiano, salva l’uomo” (il motto, dal sapore vagamente filantropico, si basava sull’intenzione di estirpare ciò che di selvaggio vi era nei giovani nativi con un programma di scolarizzazione forzata che ne favorisse il lavaggio del cervello e l’integrazione nella “civiltà” bianca) e dalla volontà, altrettanto risoluta, di illustrare i diversi tentativi di genocidio culturale perpetrati a loro danno, nonché le torture a loro inflitte attraverso gli strumenti di una colonizzazione perseguita con accanimento e che ha avuto come bersaglio le loro lingue, i loro usi e costumi, e ovviamente le loro terre.
Dopo una breve panoramica della storia dei nativi che ripercorre le cosiddette guerre indiane fino al massacro di Wounded Knee del 1890, il saggio illustra infatti una serie di eventi e di successivi provvedimenti, di restrizioni costrittive e soluzioni detentive, che ci danno un’idea molto precisa di quello che è avvenuto nel corso dei secoli passati e che avviene in parte tuttora.
In primo luogo pone l’accento sulle conseguenze nefaste generate dall’istituzione delle boarding schools, le scuole residenziali, gestite dalla chiesa cristiana, progettate a fine Ottocento per allontanare i figli dei nativi dalle famiglie di origine e favorirne l’assimilazione alla cultura bianca, decisione che ha causato alla lunga la quasi totale scomparsa delle lingue indigene, cioè di un patrimonio inestimabile ormai irrecuperabile, destinato in molti casi ad estinguersi portandosi dietro l’identità e la cultura di questi popoli, nonché la loro storia.
Con la stessa chiarezza espositiva, l’autrice ci parla anche del famigerato Indian Removal Act, la cui applicazione portò alla rimozione forzata dei nativi dalle loro terre, nonché dell’uso disinvolto dei trattati che i Governi degli Stati Uniti di volta in volta avanzarono e puntualmente infransero, a cui si aggiungevano i maltrattamenti e i massacri compiuti dall’esercito federale (all’arrivo di Colombo i nativi erano circa dieci milioni, oggi sono ridotti a duecentocinquantamila), e del confinamento nelle riserve, un vero e proprio sistema detentivo in base al quale i nativi, a tutti gli effetti dei prigionieri di guerra, venivano costretti ad abbandonare le terre che ritenevano sacre per stabilirsi su quelle che il Governo riteneva “senza valore” e sulle quali erano obbligati a vivere in estrema povertà, senza potersi sostenere con la pesca, la caccia e la raccolta di cibi tradizionali ma solo con le razioni distribuite dalle autorità, condizione che impose loro una dieta sconosciuta e che ha favorito una crescita macroscopica dei problemi di salute, in modo particolare del diabete (il cui tasso è 2,5 volte superiore tra i nativi rispetto a quello dell’intera popolazione statunitense).
Si aggiungono a questi argomenti l’attenzione rivolta alla scomparsa di decine di migliaia di donne e ragazze indigene nel corso del secolo scorso (è stato calcolato che una donna nativa su tre sia tuttora vittima di violenza sessuale nel corso della vita), spesso riconducibile a pregiudizi razziali che ne facevano e ne fanno ancora delle facili vittime, poco o per nulla tutelate, come al meno conosciuto progetto criminale in base al quale, tra il 1960 e il 1980, migliaia di donne native furono sterilizzate senza che ne fossero consapevoli e senza il loro consenso (furono circa 70.000, dicono i dati).
La SeeWalker ci spiega però anche come, dopo secoli di eccidi e di maltrattamenti in cui i nativi sono riusciti tra mille difficoltà a salvare, a tramandare parte delle loro lingue e delle loro tradizioni, delle credenze e degli insegnamenti degli antenati, al termine del trauma storico loro inflitto, il processo di rivendicazione della propria identità indigena abbia avuto finalmente inizio, con il contributo dell’American Indian Movement che ha promosso proteste e occupazioni negli Stati Uniti a partire dalla fine degli anni Sessanta, generando un movimento che ha portato a combattere pregiudizi e stereotipi offensivi (si pensi a quelli propagandati da certo cinema hollywoodiano) e a sperare in una storia più veritiera sul loro passato, non artefatta ed edulcorata ad arte dai vincitori.
Non possono che suonare allora come un monito, oltreché come una sintesi mirabile, a fine lettura, le parole di James Shot With Two Arrows, Medicine man, sicangu Rosebud lakota, riportate in una delle ultime pagine dall’autrice: “Cosa abbiamo fatto di sbagliato che hanno voluto spazzarci via? Spogliarci della nostra terra, costringerci nelle riserve, prendere la nostra lingua e i nostri vestiti, far andare i nostri bambini in quelle scuole e punirli per aver pianto per le loro madri. Ci siamo presi cura di questa terra e ora guardatela. Guardateci: stiamo morendo. Eravamo un popolo di milioni di persone e ora in alcune tribù sono rimasti in pochi, o nessuno. Stiamo perdendo le nostre lingue, molti di noi hanno ceduto all’alcool, i nostri figli non conoscono le nostre tradizioni. Non abbiamo mai preso l’oro, non abbiamo interesse per il petrolio, ci siamo solo presi cura della terra e questo è tutto ciò che sappiamo. Ci chiediamo ogni giorno: cosa abbiamo sbagliato?“
Recensione apparsa su Lankenauta.
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